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Indovina chi è il grande cinico

04/10/2001

Chi è Andrea Grammonte, il protagonista del romanzo di Eugenio Scalfari? Nipote di un grande industriale, orfano di un padre «che si è sfracellato nel fondo di un burrone insieme alla sua auto», permeato da una noia che avvolge tutta la sua esistenza, dedito a un cinismo leggero e irrimediabile, a un rapporto curioso con gli uomini, volatile e distratto con le donne: «Sembra un dio che gioca col mondo e con le creature». Anche se è un ingegnere, se la sua azienda è a Milano, se qualche tratto del carattere e dello stile potrebbe appartenere a un figlio di altre dinastie (dai Pirelli ai Falck o ai Perrone), ci vuole poca fantasia per sovrapporre questo profilo a quello dell’Avvocato. Perché la narrazione di Scalfari individua "un" principe virtuale dell’avventura economica italiana: chiedersi se c’è una storia più esemplare di quella di Gianni Agnelli, "il" principe reale dell’establishment imprenditoriale, sfiderebbe l’ovvietà. Nel romanzo la vicenda di una famiglia dell’aristocrazia industriale, con le sue intime tragedie massime e minori, e con i trionfi pubblici, costituisce l’innesco per spiegare la traiettoria italiana dal 1939 a oggi. L’intento storicizzante di Scalfari approfitta di un caso famigliare e personale per scrivere le didascalie di una storia della modernizzazione nazionale. La "ruga sulla fronte" del protagonista ha come riflessi storicamente necessari le tre fratture su cui è imperniato il libro: la guerra fascista (con il protagonista impegnato a El Alamein), il fallimento del riformismo, il terrorismo degli anni di piombo. Dopo di che, ciascuno è autorizzato a cercare fra le pagine i giochi speculari tra fiction e realtà storica. Carli, Cuccia, Mattioli, Nenni, Lombardi, e poi Foro Buonaparte, Mediobanca, il neocapitalismo, il sogno borghese dell’ammodernamento italiano che va in attrito con le resistenze confindustriali, la dolcezza della vita borghese che si incrocia con le tumultuose trasformazioni del paese, il mutamento sociale che fa i conti prima con l’immigrazione e poi con la lotta armata. Ma alla fine rimane il racconto filosofico di un conflitto individuale fra la disinvoltura morale e la tenuta etica. Impersonato dai vizi privati e dalle virtù pubbliche di un uomo, il simbolo del capitalismo italiano (forse l’unico possibile, insieme a Enrico Mattei), continuamente in bilico fra il piacere e il dovere, fra le strategie del potere e la mondanità, tra il futile e il necessario, fra la missione dinastica e l’individuale ricerca di un contatto autentico con la realtà: «È vero, la mia è una solitudine affollata».

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