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Non ci restano che i camaleonti

27/09/2001

Svanisce, forse si estingue. Il grande gattopardo dalle movenze sinuose ha visto i suoi territori restringersi dal momento in cui la politica italiana ha scelto il formato bipolare. Una schiatta di galleggiatori, di grandi ma soprattutto piccoli camaleonti della convenienza, di gregari del felino supremo, ha accettato la ferrea legge della circolazione delle élite, nel senso che le élite circolano meglio dove si annida il potere. Perché c’è una differenza primaria fra il gattopardo e il voltagabbana, tra l’esemplare alfa e l’opportunista: l’ansia di quest’ultimo si traduce nel "bandwaggoning", la corsa sul carro dei vincitori, l’affannosa ridislocazione sulla scacchiera dello spoil system domestico (mentre per indole genetica il gattopardo non si affatica nella corsa alla poltrona, si limita a restarci elegantemente sopra, o a ridisporle). Così, la febbrile schiera che ha avvertito con superiore sensibilità il cambio di stagione politica fa parte di un’antropologia minore, automaticamente propensa al trasloco (neanche la trahison) dei chierici. Di fronte ai revirement antisovietici di Sartre e degli intellettuali francesi di sinistra, Raymond Aron si stupiva: «Tutto accade come se essi trovassero un merito straordinario a di- staccarsi dal loro delirio precedente, senza però domandarsi perché abbiano delirato, e se non abbiano cominciato a delirare nuovamente». È una formula che potrebbe valere per una notevole quota di intellighenzia nazionale, passata dai puntigli o dai furori massimalisti a un fondamentalismo liberale nutrito di convenienze e di ditini alzati. Tuttavia per corrispondere al criterio immortalato da Tomasi di Lampedusa, «se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi», non basta la qualità intellettuale dell’opportunismo, o la disponibilità tattica del management esemplificata da Franco Tatò. Ci vuole lo stile supremo, la dote snobistica, il disinteresse esibito, la sintesi del principe Fabrizio che esplora il paradosso: «finché c’è morte c’è speranza». Ma dove sarebbero gli snob d’antan? Dopo la scomparsa di Enrico Cuccia, dopo il fallimento dantoniano di Giulio Andreotti nel ripristinare l’etologia democristiana, forse solo Gianni Agnelli può ambire oggi a qualificarsi come il vero interprete di un ruolo gattopardesco. Per quel senso di noia, di scetticismo interpretato stilisticamente come in un cameo hollywoodiano, sullo sfondo di un Sunset Boulevard dell’industrializzazione. Giusto come scriveva Tomasi nel suo romanzo: «Nelle persone del carattere e della classe di don Fabrizio la facoltà di essere divertiti costituisce i quattro quinti dell’affetto». Grazie allo spirito malinconico, intervallato da brevi accenni o lievi abissi di spleen, con cui assiste allo spettacolo della vita che sfugge: a cui si può rispondere con un’improvvisa accensione di interesse per un accordo con la General Motors, oppure a un satanico versetto contro Zinedine Zidane e Alex Del Piero. E per quella capacità di dettare il tono e il registro culturale che oggi gli è contesa solo dal carisma sapienziale e ineffabilmente "cool" di Carlo Maria Martini. Rispetto all’aristocrazia torinese, capace di inserirsi nel gioco politico con diplomazie da potenza a potenza, e a fornire l’imprinting delle buone maniere, scolorano nel pressappochismo le invenzioni mutuate dal lessico anglosassone. "Bipartisan" è una trasposizione mimetica che lascia sempre trasparire una traccia di furbizie da retrobottega. Un ministro come Renato Ruggiero, anima laica e internazionale di un governo qua e là incline alle bigotterie e ai provincialismi, non sembra iscrivibile né alla razza camaleontina né a quella gattopardesca: piuttosto all’ufficio di mandatario e tutore della continuità degli establishment. Chi poteva ambire al titolo era Gianni Letta, se non fosse che l’avere vestito per anni la porpora cardinalizia gli ha inibito il papato. Il Letta major può rivestire la carica di istitutore dei gattopardi eventuali, ma l’eccesso di cipria e acconciatura non compensa l’assenza di unghie. (Dall’altra parte, Antonio Maccanico era un assiduo equilibratore di sottosistemi, eppure le sue diplomazie erano tutte di tipo funzionariale, in quanto snodo pensante fra aree di potere contigue). Ci si avvicina di più, al profilo felino dei titolari di un potere eterno, se si pensa agli sforzi di Pierferdinando Casini di reincarnarsi istituzionalmente, mentre Francesco Cossiga rifiuta con balentìa sarda e pecoraia la sicilitudine del gattopardismo. Clemente Mastella o Leoluca Orlando sono esemplari spurii. Quanto agli altri circoli, fuori della politica, come maestri di stile nell’esercizio di un potere implicito non si vede un successore di Alberto Moravia. Occorre cambiare genere e serraglio, e ritrovare qualche tratto di eternità e di sapienza nel baudismo, forse in Agostino Saccà, ma sapendo che lo stigma del potere, nell’essenza della sua popolaresca trasversalità, è impresso su Maurizio Costanzo: ed è per questo che tutto il resto è corte.

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