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Lindo scende in campo

05/07/2001

Giovanni Lindo Ferretti è nato postumo quarantasette anni fa ed è bello come una faccia di Ligabue il naëf: atemporale, né giovane né vecchio, scavatissimo, un millimetro di capelli, un indizio di barba. Postumo perché sua madre rimase vedova mentre era incinta, in quegli anni Cinquanta così pieni di storie. Famiglia montanara di antifascisti rigorosi, cattolici che nel Quarantotto avevano votato Dc e più tardi avrebbero sperimentato e accettato la coerenza civile dei comunisti. Per chi non lo sapesse, in avvio degli Ottanta, Ferretti ha creato dal niente un gruppo punk di culto, i Cccp-Fedeli alla linea (evolutosi poi nei Csi, Consorzio suonatori indipendenti). È un politico naturale, un affabulatore, un filosofo, che raccoglie l’adorazione di una tribù clandestina e trasversale, per la quale è una specie di leader implicito. Un suo compagno di scuola, il critico Marco Belpoliti, spiega: «Tutti allora sapevano che Giovanni avrebbe fatto qualcosa, anche se nessuno sapeva che cosa avrebbe fatto». Nella sua grande casa sul crinale dell’Appennino reggiano, a Cerreto Alpi, Ferretti alleva e doma cavalli. Giunto a una svolta, riflette sulla possibilità, o sulla necessità, forse sul dovere, di darsi integralmente alla politica. Intanto, venerdì 29 giugno, riunisce di nuovo la sua eccentrica band. Nella notte emiliana, sullo sfondo delle querce di Montesole, a un passo da Marzabotto, tiene un concerto in memoria di Giuseppe Dossetti. Lo ha voluto chiamare "Per grazia ricevuta": letture, musiche senza parole, canzoni dei Cccp-Csi. Riunendo in una singolare triade il monaco, l’eccidio nazista, il punk. Perché proprio Dossetti? «È una riscoperta della mia maturità», dice Ferretti, «allorché ho capito la sua centralità nella costruzione della Repubblica. Lo incontravo qualche volta, da piccolo, quando ero in collegio dagli Artigianelli a Reggio: e ogni volta era la sorpresa di un carisma folgorante, di un magnetismo assoluto». Quindi una sorta di riconciliazione, dopo gli anni di Lotta continua, dell’insofferenza contestativa, e poi le stagioni provocatorie dello spettacolo oltranzista. «Con il passato, certamente, una riconciliazione. Nel segno di ciò che ha rappresentato la Resistenza, ma anche nel ricordo della testimonianza politica dell’ultimo Dossetti, con la sua difesa estrema della Costituzione». Ma non è curioso che un punk, uno della ribellione "no future", del nichilismo scaraventato in faccia al pubblico, adesso si metta a cantare per un prete? Dossetti, poi: un profeta, un biblista, un santo? «E un politico, con una storia essenziale. Oltretutto, io non ho mai assimilato l’ideologia punk: solo l’estetica. Allora il "no future" andava benissimo come cifra stilistica, indicava un punto di frattura e una chance. Eravamo a Berlino, sentivo la musica nuova, l’insurrezione punk, e mi sono detto: si è aperto uno spazio, buttiamoci dentro». Quando parla di Berlino e usa il plurale, Ferretti allude a Massimo Zamboni, incontrato in una discoteca di Kreuzberg. Un sodalizio lunghissimo che si è interrotto da poco. Perché non c’era più niente da dirsi, niente più da suonare e cantare insieme. Mentre allora, quei due che all’insaputa l’uno dell’altro erano partiti da Reggio Emilia e si erano ritrovati in quell’isola febbrile nella Germania comunista, avevano cominciato a progettare il loro personale show rivoluzionario. Un anno di lavoro, lui che scrive e Zamboni che impara a suonare la chitarra elettrica, il primo violentissimo concerto, il ritorno in Italia e un protagonismo militante, con un’infinità di performance lungo la Penisola. Una batteria elettronica, un bassista, il ballerino- spogliarellista Danilo Fatur tanto per mostrare un lato trash-popolare, e la Benemerita Soubrette del Popolo Antonella "Annarella" Giudici a complicare la scena. Con una mimesi del dogmatismo comunista e delle sue simbologie che li avrebbe portati a incidere dischi dai titoli crepitanti come "Ortodossia", "Socialismo e barbarie" riprendendo ironicamente Sartre, "Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi", citando un testo del "Chairman Mao". Senza rinunciare a "Tomorrow", una cover di Amanda Lear, o a dedicare "Oh! Battagliero" al presidente delle mazurche Iller Pattacini. Sostiene Ferretti: «Ci eravamo presi sul serio. Avevamo fatto un piano quinquennale, alla sovietica, con le condizioni per cui avremmo continuato o mollato. Se entro cinque mesi un grande newsmagazine non parla di noi, stop: e Pier Vittorio Tondelli lancia quattro pagine su "L’Espresso". A Firenze, durante un concerto disastroso, non sentivo niente, ho urlato e stonavo come un disperato nel microfono, pensando: ci massacrano, ci fanno a pezzi, ci ritiriamo. E l’indomani "Repubblica" apre gli spettacoli con un titolo a cinque colonne: "Le ardite dissonanze dei Cccp". Troppa grazia». Poi si erano aggiunti gli ex Litfiba, Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli, Giorgio Canali, la solista Ginevra Di Marco, ed ecco i Csi. L’idéologue Ferretti aveva trovato un suo registro, capace di mettere insieme la provincia e il mondo, con sintesi planetarie e fulminanti. Un viaggio in Mongolia, un’esibizione a Milano davanti al Dalai Lama, e soprattutto i due concerti di Mostar del 1998, con la città ancora smembrata: «Non si facevano concerti da dieci anni. Nel primo, organizzato nella parte cristiano-croata, non c’era nessuno, solo soldati e bambini. Nell’altro, a Mostar est, abbiamo suonato nello stadio dove erano stati concentrati i musulmani: sono venuti tutti, compresi i disperati, gli amputati, gli orfani, gli offesi». Sciolti i Csi, adesso fa delle cose. Scrive la colonna sonora per un film su Andrea Pazienza. Ha fatto l’attore in un cortometraggio. Allestisce festival strani. Uno si chiama "Confusion&" e si è aperto nella notte di san Giovanni, notte magica: fra lo sbalordimento della provincia reggiana ha chiamato un coro di pigmei aka del Centrafrica a cantare sulla pietra di Bismantova, un enorme e inquietante monolite dalle parti di Castelnuovo ne’ Monti. A seguire, fra etnicità varie, liscio con Iller Pattacini. L’altro festival è intitolato "Per te", si aprirà il 13 luglio con un concerto di Ginevra Di Marco, ed è nato sulla scia di Bologna 2000, lavorando con Giorgio Guazzaloca quando Jovanotti si era tirato indietro. Pragmatismo emiliano. Versatilità post. Forse in nome di questa disponibilità totale, pensa alla politica: «Perché la situazione della politica oggi è quella della musica a cavallo fra Settanta e Ottanta, quando noi siamo saliti sul palco. È un pensiero forte, quello dell’impegno pubblico. Non per proporre una testimonianza, che è roba da sfigati, e neanche per creare un partitino minoritario, ma per governare un territorio, un popolo, una storia». Aveva scritto una lettera a Massimo D’Alema: «Proprio di quelle che cominciano "Caro Massimo", e gli dicevo che ero pronto a mollare tutto per entrare in uno staff. Ci vuole un luogo, e il luogo possono essere i Ds, ciò che resta del partito che ha governato la mia terra. Non ho pregiudizi su ciò che saremo, socialdemocratici, democratici, non importa. Ma con Prodi avrei lavorato, con Rutelli no. Sì, lo so benissimo che i Ds non sanno più chi li vota e perché non sono stati votati. Ci vogliono un progetto e un leader: ma se li trovi, ci vai, è un dovere». Giovanni Lindo Ferretti non ha spedito la sua lettera a D’Alema. È morto Tancredi, il suo «giovane cavallaccio, sempre rotto e rovinato ovunque per troppa energia». Tra la fine del 1999 e gli inizi del 2000 è tornato a Berlino e ha inciso un nuovo disco, "Co.dex", un infinito, sofisticato e paranoico rap composto da una nota sola. Poi ha scoperto di avere un tumore nella pleura, chiamato fortunatamente "il solitario". Si è raccomandato al chirurgo, che gli ha salvato il polmone e la vita. Adesso è di nuovo sulla strada, sul palco, sulla scena. Aspetta che un leader, un progetto, un’idea abbiano bisogno di qualcuno che è venuto dal punk.

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