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Dove vai, Quercia bonsai

24/05/2001

La soluzione classica, spettacolare, mediaticamente irresistibile sarebbe la resa dei conti: una specialità storica della sinistra, anche se questa volta non c’è un capro espiatorio, un Occhetto a cui attribuire le solite pulcinellate. Eppure, il 13 maggio è stato tellurico per l’Ulivo. Non tanto nel risultato complessivo, visto che malgrado tutto il centrosinistra non è crollato: ma perché nel panorama politico-elettorale si stagliano due figure apparentemente incompatibili, i Ds precipitati al loro risultato storicamente peggiore e la Margherita rutelliana, che invece ha smentito i sondaggi e si è issata a poche centinaia di migliaia di voti dal partito di D’Alema e Veltroni. Già, Massimo e Walter. L’uno autoconfinato nella sua partita personale a Gallipoli, con il beau geste del rifiuto del paracadute proporzionale, per dimostrare la sua caratura di combattente politico e di leader capace di sporcarsi le mani; l’altro, il segretario, isolatosi nell’enclave romana, senza sfuggire al sospetto che la conquista municipale dell’Urbe sia la foglia di fico di una sostanziale abdicazione politica. Con la conseguenza che il maggiore partito della coalizione ha condotto una campagna elettorale mediocre, opaca, priva di rilievo autenticamente nazionale. A battere in lungo e in largo il Nord, a fare a cazzotti con il mondo dell’imprenditoria e delle professioni, con la realtà delle partite Iva, è rimasto quella povera anima di Piero Fassino, con il suffragio di Pierluigi Bersani, contando sul fatto che i resti della macchina operativa diessina facessero ancora una volta il loro regolare lavoro. Malgrado tutto, la notte dei lunghi coltelli non ci sarà. Non c’è un responsabile oggettivo della sconfitta, dal momento che i Ds appaiono come un partito acefalo, che si era preparato all’appuntamento elettorale chiudendosi a riccio e contando fiduciosamente su andamenti inerziali nell’elettorato. C’è da scommettere che qualcuno riesumerà l’espressione "zoccolo duro": solo che l’orgoglio diessino si trova a fare i conti con la novità assoluta emersa il 13 maggio, e cioè l’inatteso successo della Margherita. Il movimento fortissimamente voluto da Francesco Rutelli è l’incarnazione politica di un progetto radicalmente alternativo a quello centrato sull’egemonia diessina. Sfuocata culturalmente quanto si vuole, indefinita come profilo politico con il suo estendersi dai diniani ai Democratici, la Margherita interpreta comunque, magari in modo subliminale, una domanda dell’elettorato. Come ha fatto notare Enrico Letta, sfortunatissimo protagonista della campagna elettorale (è stato battuto per 384 voti nel suo collegio), «nell’arena politica l’eco prodiana di un programma teso ad assecondare lo sviluppo e nello stesso tempo a reinterpretare modernamente lo stato sociale». Può sembrare una proposta debole, se non fosse che essa si colloca in esplicita antitesi ai progetti attribuiti alla componente "socialdemocratica" dei Ds. Non è un caso che a scrutinio appena completato Francesco Cossiga abbia rivolto i soliti sarcasmi verso la Margherita e in particolare verso i margheritici criptati come Veltroni, accusato di intelligenza con il nemico e di incompatibilità con il destino a suo dire storicamente obbligato dei Ds, in pratica l’approdo incondizionato alla tradizione socialista democratica europea. Questa della destinazione socialdemocratica non è solo un’ossessione cossighiana, agitata per giustificare intellettualmente l’operazione trasformista dell’ottobre 1998 che portò alla nascita del governo D’Alema. È anche l’idea politica di fondo che ha animato l’azione politica del líder Massimo, e che ultimamente aveva visto manifestarsi l’impegno non solo culturale di Giuliano Amato. Concezione in sé tutt’altro che ignobile, anche se in questo ripiegamento socialdemocratico il capo dei Democratici Arturo Parisi aveva intravisto soprattutto il tentativo di prepararsi alla sconfitta, mantenendo intatte le forze delle milizie Ds e preparandosi a confrontarsi da potenza a potenza con Silvio Berlusconi nelle manovre parlamentari. Purtroppo per D’Alema, questa prospettiva è stata stroncata dalla terrificante combinazione del plateale risultato di Forza Italia e dalla cattiva performance diessina. Il realismo politico dice che non si possono coltivare illusioni di egemonia con un partito che numericamente è la metà della formazione guidata dal Cavaliere. A questo punto l’orgogliosa tesi dalemiana del «partito della sinistra europea che non delega a nessuno la rappresentanza dei ceti moderati» sembra più una velleità che un progetto effettivamente praticabile. Non esiste nessun partito socialista competitivo in Europa che abbia alle spalle i numeri stitici dei Ds. Ma soprattutto, come spiega Michele Salvati, uno dei liberal che, esausti, si sono tirati fuori dalla gara: «Ciò che in questo momento, dopo il voto del 13 maggio, preoccupa maggiormente non è solo la sconfitta numerica dei Ds: è la tendenziale scomparsa del suo potere di coalizione». In sostanza, gli eredi del Pci vedono svanire per il futuro la possibilità di figurare comunque alla guida delle alleanze di centrosinistra. Se in precedenza, anche ai tempi di Prodi, i Ds potevano bilanciare la cessione della sovranità a una personalità esterna con la consapevolezza di rappresentare comunque la forza principale dell’alleanza, e quindi potendo esercitare un fortissimo potere di condizionamento, ora la situazione cambia in misura radicale. Nelle regioni settentrionali, alla Camera la Margherita è andata vicinissima al risultato dei Ds (15,1 contro 15,6 per cento). La resistenza nelle regioni rosse, la «riserva indiana» di cui ha parlato il segretario emiliano Mauro Zani, comincia ad avere l’aspetto di un fenomeno residuale, sottoposto a lenti ma inquietanti processi di erosione. Inutile e masochista chiedersi che cosa sarebbe della Quercia senza l’apporto delle vecchie roccaforti: ma le qualità strategiche dei Ds hanno già dovuto scontare l’incapacità di trovare un accordo con Rifondazione comunista e con Antonio Di Pietro, giocandosi di fatto molte chance competitive, e nell’immediato domani si profila soltanto l’attrazione chissà quanto fatale con Bertinotti, che prima e dopo il 13 maggio si è rivolto ripetutamente a D’Alema per suggerire la via della rifondazione mitterrandiana, con l’obiettivo di giungere alla "gauche plurielle" di ispirazione francese. Ma la realtà è che domenica scorsa probabilmente è passata di mano la leadership di coalizione. Ha un bel dire Rutelli: «La Margherita non è in competizione con i Ds, e la Quercia rimane il perno della coalizione». Queste sono diplomazie post-elettorali, forse obbligate, ma distanti dalla nuda realtà dei fatti. La riflessione «approfondita» che tutti i diessini dicono necessaria dopo la sconfitta porterà a una scelta ad un tempo drammatica e obbligata. Drammatica perché implica la perdita del potere di guida sull’alleanza di centrosinistra. Obbligata perché dopo il 13 maggio la spinta propulsiva della coalizione è finita tra le schiere della Margherita. Qualcuno fra i Ds si trastullerà per qualche tempo con l’idea che sia possibile cercare soluzioni di sinistra pronunciata. Il superlaburista Cesare Salvi potrebbe essere uno dei protagonisti del dibattito in questa direzione. Sergio Cofferati farà sentire la sua voce, dopo avere espresso ripetutamente la sua avversione per la volatilità delle politiche proposte da Rutelli. Ma l’ala pragmatica della Quercia dovrebbe rendersi conto piuttosto rapidamente che il risultato elettorale ha fatto emergere quel pilastro centrista dell’Ulivo che era sempre mancato e che ora si propone come l’elemento di resistenza del centrosinistra dopo la grandinata berlusconiana. Che Rutelli diventi il capo dell’opposizione è, come dice Parisi, «un fatto fisiologico» e in linea con la logica maggioritaria. Superato il lutto per l’insuccesso elettorale, i Ds dovranno provare a uscire dalla scomodissima condizione di «donatori di sangue» della coalizione, come li ha definiti il sempre ruvido Zani. Probabilmente c’è un solo modo per farlo. Scartata al momento l’ipotesi epocale della fusione a caldo nel partito democratico all’americana, i diessini dovranno cercare un modus vivendi con la Margherita. A questo scopo, servono a poco le idee, omogenee ma poco spendibili, di D’Alema, Amato e Cofferati. Occorre offrire a Rutelli un interlocutore politicamente plausibile, disposto a prendere atto dell’impulso nuovo offerto alla coalizione dalla Margherita e dal suo leader, e disponibile in prospettiva a privilegiare le logiche di alleanza su quelle di partito. Non ci sono troppi esponenti, sotto la Quercia, in grado di esercitare questo ruolo. Non si può nemmeno risolvere la questione auspicando un drastico ricambio generazionale, dal momento che i protagonisti dell’ultima stagione post-Pci sono tutti più o meno coetanei. Occorre l’identikit di un capo gradito psicologicamente alla base e dotato di quella duttilità politica che gli consenta di giocare di sponda con i centristi. Un uomo in grado di dare ai Ds un ruolo di rappresentanza del mondo economico, facendo pendant con il ruolo simbolico e "ideologico" ricoperto da Rutelli. Può essere Piero Fassino, il vecchio "responsabile fabbriche" del modernista Pci torinese. Ma se si pensasse che a Fassino manca la dote divina del carisma, l’appeal del politico popolare, allora l’alternativa cadrebbe per forza di gravità su Pierluigi Bersani: l’anima emiliana, il possibile capo di un partito che non dona il sangue ma che sa venire a patti con i moderni lì al centro.

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