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Parola di apprendista stregone

22/02/2001

Adesso che cosa si inventerà, Alessandro Profumo? Le voci più maliziose del mondo bancario dicono che l’amministratore delegato di UniCredito italiano è entrato in stallo, e questo non è nel suo stile. Lui, vecchio boyscout, il capobranco più cattivo e determinato, a un certo punto era diventato il capo degli apprendisti stregoni. Aveva l’idea che la "sua" banca dovesse essere il motore del cambiamento del sistema bancario. Tutto questo da una posizione di centrosinistra, perché non nasconde le sue preferenze politiche, ed è stato un ulivista esplicito: «Con Prodi c’era una profonda condivisione di vedute, anche se capivo che ogni volta che sui giornali appariva in un articolo l’aggettivo "prodiano" era un termine che poteva prestarsi a considerazioni malevole». Soprattutto per un quarantenne che rompeva ritmi e schemi. «Siamo stati i primi a parlare di Roe, Return on equity, trattando il nostro settore di lavoro come un’azienda sotto tutti gli aspetti. C’era molto scetticismo, in giro, ci consideravano eccentrici. Si sgonfieranno, dicevano. Per la verità la fama di apprendisti stregoni non era immeritata. Avevamo il senso della direzione, ma anche l’idea che ogni giorno occorreva inventare qualcosa». Nel frattempo però il governatore Fazio ha bloccato la fusione con Intesa. Questo cambia la strategia complessiva di UniCredito? «No, nel giugno scorso abbiamo approvato un piano triennale imperniato sull’informatizzazione degli sportelli, sul lancio di due banche Internet, sullo sviluppo della nostra presenza nella nuova Europa. Unintesa non è mai stato un progetto per il management dei due gruppi, quindi non ci saranno contraccolpi. Resta però, non me lo nascondo, il problema della crescita a medio termine. Il mercato domestico ormai è l’Europa e da questo punto di vista tutti noi siamo ancora inadeguati». Non è la prima battuta d’arresto. A suo tempo anche l’Opa sulla Comit non è andata in porto. «Quando si commettono errori è bene riconoscerli e analizzarli. Con la Comit ci fu un eccesso di sicurezza, che ci indusse a trascurare la necessità di generare consenso sull’operazione. Ma sarebbe un altro errore perdere di vista la realtà in cui ci troviamo adesso, con gli sviluppi possibili». Quando si parla del suo stile si allude spesso a metodi controcorrente. Sbrigativi. Comunque poco felpati. «Al contrario. L’esperienza di UniCredito è stata un crinale per tutto il settore. Abbiamo messo insieme mondi molto diversi, e credo che ciò abbia dato un contributo significativo al miglioramento del sistema bancario italiano. Adesso siamo al diciottesimo posto in Europa come dimensione, all’undicesimo per il totale dei ricavi, al quarto come ritorno su capitale e investimenti. In Italia siamo in prima posizione per redditività e per capitalizzazione di mercato, al terzo come "total asset" dopo Intesa e San Paolo». E a dispetto di tutto questo gli azionisti sembrano impazienti. «Tutto il sistema è in movimento, con una contrapposizione visibile fra innovatori e conservatori. Una parte del settore continua a fare banca in modo completamente diverso dal nostro, più sensibile agli umori ambientali, diciamo così…». Cioè più sensibile alla politica. Mentre di UniCredito si dice che non ha santi in paradiso. «Io sono convinto che a restare chiusi nella dimensione nazionale e a privilegiare l’aspetto politico si perde di vista il futuro. Ormai metà del nostro gruppo è all’estero. Dei 60 mila dipendenti del gruppo, 35 mila sono fuori dai confini nazionali. Abbiamo fatto uno sforzo straordinario per guadagnare posizioni nell’Europa centro-orientale, partecipando al processo di privatizzazione e acquisendo banche importanti in Polonia, in Bulgaria, in Croazia, in Cekia, in Slovenia». Sarebbe la terza via bancaria? «È una strategia che si fonda sull’allargamento dell’Unione europea. La prospettiva dell’allargamento abbatte il rischio-paese, perché i candidati all’ingresso hanno l’obbligo di mettere sotto controllo i conti pubblici e l’inflazione. Inoltre questi paesi hanno tassi di crescita elevati, e vi si può trasferire facilmente il modello organizzativo che abbiamo applicato in Italia. Per questo, a medio termine, si possono aprire discorsi con la Turchia, creando partnership con banche private, e in futuro ci potrebbe essere qualche sviluppo che riguarda il Maghreb». Ma intanto, per restare all’Italia, non è ancora chiaro quale sarà il prossimo target di UniCredito. «Che ci sia in corso un processo complicato è fuori dubbio. Riguarda tutti, dai giganti alle più piccole casse di risparmio. I tempi cambiano, l’immobilità non è più un dogma. Per dire, se in futuro Mediobanca dovesse modificare il portafoglio di partecipazioni che detiene non sarà quella rivoluzione che sarebbe apparsa nell’epoca precedente». Rivoluzione per rivoluzione, quella di UniCredito sembra in stand-by. «Faccia lei. Abbiamo chiuso il 2000 con un Roe intorno al 24 per cento, mentre la media italiana del settore è intorno al 10 per cento. Nei primi nove mesi del 2000 l’utile è stato di circa 2.700 miliardi. Nel 1996 il prezzo per azione era intorno alle 2 mila lire, mentre oggi il titolo oscilla sui cinque euro e mezzo». Capirà, dopo avere visto i fuochi artificiali non ci si accontenta della qualità del management. «L’importante è sfruttare tutte le potenzialità che offre la banca. Ad esempio adesso siamo terzi in Europa per i fondi comuni, con oltre 250 mila miliardi di lire in gestione. Ma esistono grandi possibilità di articolare l’attività, che abbiamo cominciato a muovere: dall’investment banking alla banca per le famiglie, dai servizi di gestione finanziaria per la clientela "affluent" fino agli strumenti di copertura per le aziende che fanno export e quelli per stabilizzare i flussi finanziari degli enti locali». Sono faccende che non eccitano la fantasia. «Già. Abbiamo comprato una società americana, Pioneer, nata a Boston dopo il crollo del 1929, pagandola 2.750 miliardi, e in pochi ci hanno fatto caso. È basata a Dublino, ha 200 dipendenti con uno staff di 80 analisti che sono in grado di andare in giro per l’Europa osservando bottom- up le aziende ed esaminando le opportunità di investimento. Si parla sempre del "risiko" bancario, come se fosse un gioco di società o la conseguenza di una trama politica: ma la banca è un lavoro duro, non sempre spettacolare. Passate le epoche eroiche, la normalità continua a essere un impegno difficile».

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