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Il Cavaliere bossizzato

17/12/2002

Durante le cene ad Arcore, Silvio Berlusconi si è accorto che Umberto Bossi non è semplicemente un alleato da tenere alla briglia. Dicono gli intimi che il premier nutra perfino un’ammirazione per le trovate politicanti del Senatur, per le sue affabulazioni, per le sue dietrologie. Proprio il tipo da "seconda media, ultimi banchi" che è il target di Berlusconi. Lentamente, agli occhi del leader di Forza Italia la figura di Bossi è cambiata. Prima era il ribaltonista, poi si è trasformato nell’arma per la rivincita elettorale. Infine è bastata una luce flou nel salotto, le chiacchiere davanti alla pietanzina, e Berlusconi ha capito che l’uomo della Lega non è più un socio insidioso, innocuo solo perché temporaneamente incapsulato in un patto di ferro. Il Cavaliere legge le psicologie e i caratteri, si fida del suo fiuto e ragiona secondo il criterio alternativo "è uno di noi, non è uno di noi". Come dimostra il sondaggio che pubblichiamo in queste pagine, sulla devolution la pensa esattamente come la maggioranza degli italiani: una partita di scambio con il suo alleato. Allorché Bossi ha preteso il varo della riforma, cioè il prezzo politico su cui era stata contrattata l’alleanza, i suoi consiglieri più vicini lo hanno invitato a minimizzare. Che saranno mai quelle 11 righe del comma aggiunto all’articolo 117 della Costituzione?, gli ha sussurrato Giuliano Ferrara. Invece Berlusconi non aveva nessuna voglia di abbassare il tono: anzi, ha approfittato del fragore sulla devolution per gettare allegramente il petardo della super-riforma presidenzialista e proporzionalista nel congresso dell’Udc. Il fatto è che gli uomini raccolti intorno a Marco Follini e a Pier Ferdinando Casini costituiscono una pattuglia minuscola quanto a numeri elettorali, ma rappresentano un disturbo politico e culturale. È vero che una farfalla non può sfidare un elefante, ma i centristi se ne stanno lì a testimoniare che gli unici eredi della tradizione sturziana e degasperiana sono loro, non l’esercito secolarizzato e déraciné degli uomini di Forza Italia. È inutile quindi che nei momenti di tensione politica i suggeritori di Berlusconi gli mormorino che la Lega è un’entità residuale, e che in base gli ultimi dati sarebbe decisiva solo in sette collegi del Nord. Va da sé che il Cavaliere pensa che nel lungo periodo Forza Italia è destinata a erodere ulteriormente gran parte del voto leghista; e non lo inquieta certo un partito reduce dallo smacco delle elezioni del 2001, quando mancò la soglia di sbarramento nel proporzionale, nonché privo di risorse comunicative efficaci (anche nella struttura delle reti e dell’informazione Rai, la neo-lottizzazione ha neutralizzato il peso degli uomini della Lega ponendo in postazione simmetrica altrettanti esponenti di Alleanza Nazionale). Ma in attesa che il pesce grosso mangi il pesciolino, Berlusconi vede la Lega come un partito cugino dal punto di vista della composizione sociale; e considera Bossi come un alter ego popolano, incapace di distinguere fra le complicazioni della posateria, ma singolarmente in sintonia con la sua visione politica. Questione d’istinto: entrambi infatti, Berlusconi e Bossi, sono i battistrada di un processo politico che Giuseppe De Rita nel suo ultimo saggio ("Il regno inerme", Einaudi) ha definito "de-istituzionalizzazione". Ciò significa che, in quanto lombardi, pragmatici fino alla spregiudicatezza più estemporanea, rodomonteschi quel tanto che occorre per fare la faccia cattiva agli avversari esterni e interni, e soprattutto largamente indifferenti alle convenzioni istituzionali e protocollari, Bossi e Berlusconi condividono in primo luogo un’idea semplificatoria della politica: esiste il leader, ed esiste il popolo che ne legittima il carisma. Nessuna articolazione intermedia fra il capo e la moltitudine atomizzata che assicura il consenso. L’Umberto mobilita i suoi con le ricostruzioni fantapolitiche sbraitate a Pontida; il Cavaliere riassume nelle sue ricorrenti boutade i sentimenti popolari come il rancore per la grande impresa in crisi, oppure il lassismo benevolo e "pratico" per i lavoretti in nero e i giochi di prestigio con le fatture e l’Iva. Non si può certo dire che Umberto Bossi si sia berlusconizzato: piuttosto è Berlusconi a essersi "bossizzato", grazie anche ai buoni uffici di Tremonti e ai suoi exploit filosofici. Tuttavia il risultato non cambia: una parte di Colbert, due parti di deregulation brevi manu, un annuncio di New Deal, una trovata sui conti pubblici, un federalismo o la va o la spacca. C’è un nuovo partito, forzista e leghista insieme, sguaiato e manageriale: e tutti gli altri, da Fini a Follini, sono avvisati.

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