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La sinistra e il modello americano

11/07/2002

Gli esami di coscienza che la sinistra europea dovrebbe imporsi, di fronte alle sconfitte elettorali in Italia e in Francia, e al brivido antisocialista che percorre la Germania, sono molteplici. Ma ce n’è uno più importante degli altri. Nell’ultimo decennio, infatti, le forze politiche continentali si sono fatte sedurre dall’idea di trasformare il capitalismo europeo in una imitazione dell’economia anglosassone. Sembrava impossibile resistere alla ventata d’Oltreatlantico, dopo il lungo ciclo clintoniano: e quindi i partiti di tradizione socialdemocratica, ma anche le coalizioni più genericamente di centrosinistra, si sono fatte trascinare dall’idea che l’unica economia e l’unico mercato possibili fossero quelli, idealizzati, in cui gli animal spirits svolazzano senza freni, con un ridimensionamento profondo delle strutture di garanzia collettiva. Come ha scritto un intellettuale di spicco, Zygmunt Bauman, si è persa di vista la nozione che il welfare state non è semplicemente un apparato che eroga burocraticamente servizi, bensì la concreta forma "etica" che istituisce nessi solidali con la parte svantaggiata della società. Ora, è vero che la politica sembra avere divorziato dall’economia, sicché un buon rendimento in termini di crescita non basta a mantenere il consenso (Jospin docet); ed è anche vero che sono le pulsioni sociali più grezze, in particolare verso l’immigrazione, a muovere il consenso politico. Quando però il capitalismo americano "produce" gli imbrogli Enron e Worldcom, e l’equilibrio economico mondiale viene incrinato dal tracollo dell’Argentina e dalla crisi brasiliana, viene da chiedersi a che cosa pensa la sinistra, anche quella italiana: ritiene di insistere sulla rincorsa affannata dei modelli neoconservatori? Spera ancora in quell’idealistico equilibrio di mercato che nella realtà non riesce a redistribuire la ricchezza? Il modello americano ha spremuto ciò che poteva spremere, sia nelle arene nazionali sia su base globale. Gli effetti perversi dell’illusione neoliberista pesano sul benessere anche delle nostre società: le "esternalità" (come le chiamano gli economisti) sono rappresentate dall’esclusione di intere fasce sociali, a cui viene a mancare ogni rappresentanza politica ed elettorale. L’obiezione secondo cui non c’è alternativa, poiché la competizione globale rende obbligatorie le scelte di politica economica, è in fondo miope. L’Unione europea è nata anche per poter giocare un ruolo dentro la globalizzazione. L’abbandono del modello europeo (l’economia sociale di mercato), è nato dall’infatuazione per le rutilanti performance americane. Adesso ci si chiede perché le classi dirigenti europee non hanno avuto né il coraggio intellettuale né la consapevolezza storica di valorizzare la propria specificità economico-sociale. Sarebbe curioso che alla fine la sinistra continuasse a scommettere sulle illusioni: lasciando così alla destra liberale il governo dell’economia, e alla destra nazionalpopulista la rappresentazione dei bisogni e delle delusioni degli esclusi.

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