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Lupi solitari

30/05/2002

Tradizionalisti o postmoderni, protagonisti del mercato o vittime del marketing, conformisti o trasgressivi, i giovani degli anni Duemila sembrano soprattutto rifiutarsi ai cliché. E si capisce: la categoria sociale ed esistenziale di "giovane" si è estesa a dismisura. Il Quinto rapporto Iard sulla condizione giovanile, che esce in libreria la settimana prossima per i tipi del Mulino, è uno specchio di questa trasformazione: le prime rilevazioni, svolte negli anni Ottanta, si basavano su campioni di ragazzi in età fra i 15 e i 24 anni; nel decennio Novanta il limite più alto è stato portato fino ai 29 anni; in quest’ultima edizione l’inchiesta è stata dilatata fino ai 34 anni di età. Carlo Buzzi, lo studioso dello Iard che ha coordinato la ricerca insieme con Alessandro Cavalli, spiega la decisione in questo modo: «L’innalzamento dell’età di rilevazione è una soluzione inevitabile per poter osservare in quote statisticamente significative del campione il superamento delle ultime tappe della transizione, ovvero l’uscita definitiva dalle mura domestiche, la creazione di una nuova famiglia, la nascita del primo figlio». L’indagine dello Iard (un istituto milanese attivo dal 1961 nella ricerca sui processi culturali, educativi e formativi) è stata realizzata da 150 rilevatori, su un campione rappresentativo dell’intera popolazione giovanile italiana composto da 3000 intervistati. I dati raccolti sono stati analizzati, confrontati con le indagini precedenti e infine commentati da una trentina di studiosi. Ne è uscito un volume di quasi 700 pagine, che si presenta non soltanto come l’opera di riferimento essenziale in materia per la sociologia italiana, ma anche come un contributo di stringente interesse per chiunque voglia fare i conti con il mondo giovanile del nostro paese. Ilvo Diamanti, che ha curato il contributo dedicato all’ "appartenenza territoriale", offre una prima definizione molto sfumata della galassia dei giovani italiani: «Mostrano un’identità territoriale aperta e composita, imperniata sulla dimensione urbana e municipale, riassunta dalla cornice nazionale, proiettata in senso cosmopolita e, soprattutto, in chiave europea. Invece di opporre il locale, il nazionale e il globale, li intrecciano». È il primo sintomo: almeno sul piano dell’identità nazionale non esiste più un distacco fra giovani e adulti. «I giovani esprimono tendenze che si stanno diffondendo in tutta la società italiana». Prima conclusione: «I giovani del nuovo secolo sono figli del loro tempo. Eredi dei loro padri. Senza rotture. Una generazione indifferente». Indifferente? L’aggettivo sembrerebbe adatto a uno sfondo politico di omologazione progressiva, di gestione delle coscienze attraverso la pervasività mediatica della televisione, di una retorica sociale egemonica. Ma se si abbandona l’ambito dell’identità il quadro risulta più sfumato. L’immagine del giovane contemporaneo potrebbe essere quella del ragazzo che opera una complessa integrazione fra strumenti tecnologici e pratiche di consumo ultramoderno, racchiuso nello spazio ad alta dotazione di quella che una volta era semplicemente la sua cameretta, e ora è la "technified bedroom", il luogo in cui si pratica la tecnologia, si esplora il web, si "scarica" tutto lo scaricabile, si crea musica clonata, si manipola il software. Ma forse questa è semplicemente l’immagine giovanile preferita dai media. Per capire qualcosa in più occorre individuare anche le caratteristiche psicologiche dei ragazzi. E allora verrebbe fuori come stigma centrale l’incertezza. Silvia Gilardi, che ha redatto il contributo su "Percezioni di sé e soddisfazione personale" lo rileva con chiarezza: «I ragazzi di oggi stanno crescendo in una realtà sociale ed economica in cui l’enfasi è posta sulla flessibilità e il cambiamento: la richiesta che viene dagli adulti è di essere disponibili a modificarsi, a ridefinire le proprie competenze e le proprie appartenenze, a spostarsi da un lavoro e da un luogo all’altro». Ne nasce una percezione di insicurezza che riguarda diffusamente tutte le classi sociali senza distinzioni. Il senso della precarietà è incombente: «Vivere in un mondo che esalta l’instabilità e la discontinuità, non solo lavorativa, ma anche affettiva, chiede agli individui lo sforzo continuo di ripensarsi, per poter affrontare condizioni di vita in cui la dimensione principale del quotidiano è il rischio». È per questo che si forma nei giovani una percezione di inadeguatezza, che investe in modo particolare le ragazze (più di un quarto vorrebbe avere più capacità decisionali, quasi un terzo si sente travolto da emozioni che lasciano inquiete; si preoccupano molto più dei maschi dell’aspetto fisico, a causa del persistere di uno stereotipo, molto interiorizzato, «che fa dipendere il loro valore sulla scena sociale dall’appeal fisico»). Si tratta di una condizione che vale in grande misura per l’età fra i 18 e i 20 anni; eppure non sono solo gli adolescenti e le ragazze a provare ansia, inquietudine, senso di confusione, sentimenti di tristezza e di paura. È vero che con il crescere dell’età si guadagna autocontrollo, ma anche fra i "giovani adulti" ultratrentenni uno su cinque "spesso si sente triste" e ha paura delle critiche. La categoria della "presentificazione", cioè la scarsa preoccupazione per ciò che potrà accadere nel futuro, era già stata codificata da Alessandro Cavalli nel 1997. Questo atteggiamento, sostiene la Gilardi, non implica la rinuncia a mettersi al centro della propria vita: permane il senso di poter decidere, di poter impegnarsi e di non delegare ad altri le decisioni: «Ma quello che i giovani sentono ormai impossibile è il valore della pianificazione razionale a lungo termine», commenta l’autrice: «Sembrano avere interiorizzato lo stile comportamentale sempre più enfatizzato all’interno dei contesti aziendali, dove è premiata la capacità di "navigare a vista", a fronte di obiettivi a brevissimo termine». Il senso di padronanza della propria vita si sviluppa con la maturità, tuttavia questa conquista deve continuamente fronteggiare un’altra sensazione dominante, la solitudine. Sentirsi soli significa l’idea di "muoversi senza protezioni in una realtà che restituisce uno sguardo poco benevolo, dove manca qualcosa, o meglio qualcuno, su cui contare". Non mancano i genitori, manca piuttosto il mondo degli adulti, l’immagine rassicurante delle figure-guida. I giovani vedono solo coetanei, magari sclerotizzati, irrigiditi dalle abitudini, comunque privi di autorevolezza morale. Mettiamoci il tramonto della politica e l’indifferenza rispetto all’impegno politico-sociale, la riduzione "postmaterialista" del valore del lavoro nelle strategie di vita, l’emergere della figura volatile del consumatore rispetto a quella del lavoratore, e più oggettivamente la perdita di prestigio del sindacato (quasi la metà degli intervistati condivide l’affermazione secondo cui «i sindacati tutelano soltanto coloro che sono già occupati»), nonché la precarizzazione del lavoro (gli "atipici" rappresentano quasi il 15 per cento dell’occupazione totale), e si avrà un quadro più chiaro dell’incertezza come dimensione della vita giovanile. Incertezza sulle strategie di vita che comporta il rinvio dell’uscita dalla famiglia e dell’assunzione di responsabilità come la convivenza e la procreazione. Ma non solo: di fronte a un mondo in mutamento, i "lupi solitari", questi individualisti dispersi che rifiutano la partecipazione pubblica, cercano nicchie di protezione: nicchie fisiche e spaziali, in famiglia e in casa; nicchie ideologiche, ad esempio, con l’adesione a modelli politici forti (come rivela il consenso per An, e simmetricamente la sovrarappresentazione di Rifondazione comunista); ma anche nicchie "mitologiche": il giovane degli anni 2000 si dichiara cattolico (80 per cento, con un deficit di 8 punti rispetto al dato generale della popolazione italiana), e rifiuta le suggestioni della new age (0,7 per cento) o delle religioni e spiritualità orientali (1,1). Tuttavia, la dominante cattolica è contaminata da evidenti richiami sincretistici: la maggioranza dei giovani (55 per cento) condivide la nozione che "tutto ciò che ci circonda (persone, animali, piante) ha un’anima", e il 20 per cento accetta l’idea della reincarnazione dopo la morte. Ma l’aspetto forse più evidente in cui l’incertezza esprime nuove tendenze riguarda la dimensione delle norme e della trasgressione. Sulla violenza, o sulla legalità economica, i giovani, seppur con varie sfumature a seconda della loro collocazione politica, manifestano un tendenziale consenso alle idee tradizionali: le "norme giovanili" non si discostano significamente dalle "norme sociali", se non per una maggiore soggettività di giudizio che investe anche aree di comportamento stressate negativamente dalla valutazione adulta (fumare tabacco, bere talvolta fino all’eccesso). Sul terreno dei comportamenti privati, a cominciare dalla sessualità, la liberalizzazione è crescente. Si vede invece una netta spaccatura sui temi "aperti" (aborto, droghe leggere, eutanasia, omosessualità), "con una divisione che passa fra coloro che mettono al centro la libertà individuale e coloro che sono più legati ai valori tradizionali della società". In ogni caso il criterio centrale di riferimento è la libertà individuale. Che dilaga, con un effetto sintomatico, in tutti i settori di attività permeati dalla nuova concezione di proprietà privata e di copyright determinata dalle tecnologie: la stragrande maggioranza dei giovani considera del tutto "normale" utilizzare Internet in modo anarchico, usare prodotti pirata, accedere senza controlli al software e ai file di musica. In questo caso, sottolinea il rapporto Iard, gli orientamenti rilevati non costituiscono semplicemente una "trasgressione", quanto piuttosto una "innovazione", cioè "un mutamento etico sostanziale". Incerti, più liberi, soli e consapevoli della drammaticità potenziale della loro condizione, i giovani si inventano online il loro codice morale.

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