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Brivido MONDIALE

30/05/2002

Ci mancava soltanto il rapporto della Goldman Sachs, secondo cui esiste una correlazione secca fra rendimento calcistico e performance economica di un Paese; ma adesso sappiamo qual è la vera posta in gioco dei Mondiali in Corea e Giappone: cioè che Giovanni Trapattoni non affronta semplicemente un torneo internazionale, bensì un referendum planetario sulla credibilità italiana. E si capisce anche meglio, a posteriori e di conseguenza, il fragoroso exploit di Silvio Berlusconi contro Dino Zoff, appena conclusa la disgraziata finale degli Europei contro la Francia. La conquista di un trofeo pedatorio vale quanto alcuni decimali di crescita del Pil. E di conseguenza gli italiani che scenderanno in campo in Estremo Oriente avranno il compito di miracol mostrare, nel senso dell’immancabile boom. Perché tu sarai stato capace di mettere d’accordo due punte come George Bush e Vladimir Putin, ma il mondo si aspetta di vedere se si può fare convivere Totti e Del Piero. Secondo una rigida lettura marxista, nel 1994 la partita contro la Bulgaria fu la sovrastruttura, il prodotto "coprente", per il decreto salvaladri; idem, nel 2002 le eventuali vittorie della nazionale fornirebbero la prova collaterale che il "boost" dell’economia non è un’invenzione del fantasista Tremonti. Purtroppo una visione materialista del calcio avrà pure una plausibilità nel lungo periodo, ma un campionato mondiale vive nell’episodio, non nella longue durée. Di fronte alle ciclicità storiche di Fernand Braudel c’è sempre il rischio di trovare un perfetto sconosciuto che manda all’aria i piani, come quel mezzosangue Wiltord che in extremis, e con la complicità disperata di Toldo sul rasoterra, due anni fa sottrasse ignobilmente alla sesta potenza economica mondiale la coppa europea. L’Italia che si candida alla finale mondiale è una squadra fortemente assestata sul centro, vale a dire sull’asse che parte da Buffon, passa per Nesta e Cannavaro, viaggia sui lanci verticali di Di Biagio, passa per Totti e finalizza con Vieri. Dritta come un’autostrada. Proprio una nazionale centrista, senza dérapage a destra o a sinistra, visto che gli esterni, cioè le vecchie ali, sono in senso tecnico di classe media. Dicono gli esperti che sul cammino della nazionale, dopo il girone eliminatorio, gli ostacoli potrebbero venire dagli spagnoli di Raul e Morientes, attaccanti piuttosto fighetti, oppure dai portoghesi capeggiati dall’ombroso trequartista Figo. Insomma, nella strada verso il successo c’è un’ombra aznariana, o comunque di centro-destra fra l’iberico e il lusitano. Si può scommettere che il pathos nazionalistico raggiungerà apici notevoli già nelle eliminatorie, vista la tradizionale attitudine italiana a complicarsi l’esistenza con le avversarie di media tacca. È sempre così: all’avvio si corre; dopo si gioca e vengono fuori i valori. Conviene farsene una ragione, non lasciarsi prendere dall’ansia da programma della fase uno, e approfittare delle prime partite per dare un’occhiata alla concorrenza. I bookmakers, ossia i sondaggisti ufficiali del torneo, danno l’Argentina 7-2, la Francia 4-1, Italia e Brasile 6-1. Ecco dunque fatte le semifinali, secondo il voto dei mercati. L’Argentina sarebbe la più vistosa smentita del legame deterministico fra successo economico e prestazione sportiva, ma presenta un’infilata di fuoriclasse, dal difensore Samuel al centrocampista Veron e al centravanti Crespo, e soprattutto ha un orgoglio patriottico, un’indole nazionalpopulista, una innata vocazione peronista che la induce a considerarsi al vertice malgrado tutto, e a considerare il Mundial come una rivincita, o una "reconquista" tipo Malvinas, contro il complotto internazionale gestito da yanqui, Banca mondiale, Fondo monetario e squadre europee. Sembra meno complesso il discorso relativo alla Francia, da anni stabilmente al top: per noi, una finale contro i blu raggiungerebbe un’acme ansiogena terrificante, perché contro i francesi siamo usciti nel 1998 ai rigori, e abbiamo perso gli Europei due anni dopo, nel drammatico modo da cretini che sappiamo. Purtroppo per l’Italia, che è instabile emotivamente e che ha un quarto dell’economia in nero, i francesi avranno in nero un quinto della politica, ma la loro nazionale multietnica è un intreccio fantastico di illuminismo e fantasia "métèque". La classe statuaria di Thuram, che alla Juve sembrava in declino ma forse si riposava, lo stile mondiale di Zidane, autore nella finale di Champion’s League del più colossale gol al volo dopo il siluro di Van Basten contro i sovietici 16 anni fa, l’opportunismo sottomisura che fa di Trezeguet il più spaventoso attaccante d’area visibile sui campi contemporanei, la velocità agghiacciante del dribbling di Henry quando sgomma sulla fascia, sono tutti fattori che possono mettere in grave tensione le chance italiane. Inutile farsi illusioni: a priori, l’egemonia europea è blu, non azzurra. Dopo di che, calma e sangue freddo. Durante le eliminatorie si metterà a fuoco il potenziale del Brasile, che alla lunga, quando per l’appunto occorrerà giocare e non solo ottusamente correre, farà vedere lo stile dei suoi jongleur: la classe calda di Ronaldo, se tengono muscoli e tendini, e la classe fredda di Rivaldo, forse il carioca più europeo generato da quella scuola. Al margine, si potranno osservare gli outsider: senegalesi, cinesi, camerunesi, nigeriani, giapponesi, turchi. Con un occhio al più bravo di tutti, il nano magico Owen, unica speranza del blairismo nel declino continentale del centro-sinistra. E tenendo in mente la risposta dell’indimenticabile Nereo Rocco, quando negli spogliatoi qualcuno diceva «Vinca il migliore»: «Sperèmo de no». Alla faccia della retorica "boomish" del governo, del forza Italia di prammatica, del contare di più in Europa e nel mondo, dell’amico Bush e del simpatico Putin, e di Goldman Sachs. Si può vincere anche in contropiede, da autentici ladri: tanto gli appositi decreti li hanno già fatti.

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