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Cronache dal secolo breve

23/05/2002

Il vecchio è combattivo, in una forma fisica scintillante, anche se civetta sull’età. Presidia la sua postazione alla Rai circondato dall’affetto del suo entourage. Fa progetti. Il telefono squilla di continuo. Enzo Biagi, il «criminoso», l’uomo da epurare, da sospendere, da impedirgli di trasmettere per i prossimi anni. Fra qualche settimana dovrebbe filarsene a Mosca per incontrare Vladimir Putin, intervistarlo e scrivere la sua biografia. Minimizza: «Putin deve avere letto qualcosa di mio, e così mi hanno invitato». Intanto manda in libreria con Rizzoli un nuovo libro, "Addio a questi mondi", 336 pagine dedicate ai tre drammi del Novecento, fascismo, nazismo, comunismo: «È la raccolta di tutto quello che ho scritto in proposito, da cronista. Le testimonianze raccolte, gli episodi che ho vissuto personalmente, gli incontri, i protagonisti. E poi anche un bilancio, sempre da giornalista, delle illusioni di un secolo, delle speranze tradite, delle illusioni perdute». Biagi, a quale di queste grandi narrazioni del secolo si sente più vicino? «Al fascismo, senza dubbio. Per forza: sono stato il primo balilla del mio paese; un mio zio, squadrista, è stato fucilato dai partigiani, mentre un mio cugino, Bruno Biagi, professore universitario di diritto corporativo, è stato sottosegretario alle Corporazioni. Il fascismo è una storia di famiglia, anche se alla fine le mie scelte sono state completamente diverse». Ma vale ancora la pena di scavare dentro le storie del secolo scorso? «Ma certo. Altrimenti nella disinformazione generale si trovano dei giovani che al nome di Mussolini chiedono: chi, il padre del pianista? Non bisognerebbe perdere il senso del passato, altrimenti si smarrisce il significato delle conquiste. Chi glielo spiega ai ragazzi di oggi che le donne vanno nelle fabbriche e negli uffici perché ci sono state le guerre, con gli uomini al fronte?» Che cosa ha pensato ricostruendo le vicende delle tre grandi esperienze ideologiche novecentesche? «Grandi e terribili. Quando qualcuno equipara nazismo e comunismo sovietico mi dico che in realtà le intenzioni erano molto diverse. Ma le dittature si assomigliano tutte. Certo, c’è una differenza fra la crudeltà pagana del nazismo e quel coacervo di utopia e di crimine che viene fuori dalla rivoluzione d’Ottobre. Ma alla fine resta il senso di un fallimento, ed è vero ciò che diceva Nenni: se il socialismo non è umano non è niente». E che cosa prova di fronte al revival di estrema destra in Francia e in altri paesi europei? «Ciò che mi sembra inquietante è che siamo sprovvisti di antidoti. Vede, a volte mi sono chiesto perché a suo tempo io ho scelto la Resistenza. Credo che molto sia dovuto alla frequentazione di un circolo cattolico, e alle conversazioni con un amico divenuto prete dopo essere stato ufficiale in Africa. Dopo il 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini le scelte non sono state politiche, ma piuttosto di segno religioso, morale. Oggi, se Le Pen ha successo, vuol dire che mancano i criteri di riferimento per dire no». E come valuta il continuo revisionismo sulla storia contemporanea italiana, a partire dalla Resistenza? I morti sono davvero tutti uguali? «I morti sono tutti morti, innanzitutto. Certo, il rispetto vale per tutti. Ma le ragioni erano diverse, e su quelle non c’è da cambiare idea». Però lei se ne andò in Giustizia e Libertà, non con i comunisti. «Me ne andai con quelli di Gielle perché ero attratto da un’idea di civiltà e di onestà, e devo dire che a onore della verità lì di farabutti ce n’erano pochi. Eppure verso i comunisti italiani ho sempre guardato con un certo fascino e con molta simpatia. Una simpatia non politica, ma un sentimento che nasceva dall’avere condiviso un pezzo di storia». Lei è stato adolescente negli anni Trenta, quando il consenso al fascismo era al suo apice… «Vuole chiedermi se oggi assistiamo a situazioni che potrebbero preludere a una limitazione della libertà?» L’avrei detto in modo più sfumato, ma il concetto è quello. «Io continuo a ripetere quello che diceva Flaiano, e cioè che gli italiani hanno l’abitudine di correre in soccorso al vincitore. In questo caso al padrone. Strano, un popolo di individualisti che s’intruppa con il principale. Sarà perché non ci sono più le grandi passioni politiche della mia generazione. Uomini come don Zeno, come don Mazzolari, don Milani…» Tutti preti. Oggi dev’essere la sua giornata di buon cattolico, Biagi. «Sono un cattivo cattolico, ma sono preoccupato per l’indifferenza, per un’ottusità generale, forse provocata dal benessere: non c’è opposizione, non c’è nessuno slancio. Dove sono, che cosa fanno quelli che hanno liquidato Prodi? Non si vergognano di avere aperto la strada a Berlusconi? Pazienza D’Alema, che voleva prendergli il posto e quindi aveva un interesse politico preciso, ma gli altri, dove si sono nascosti, che cos’hanno da dire?» Di fronte al berlusconismo lei rimpiange il passato? «Moro, Fanfani, vuol mettere? E poi Nenni, verso cui avevo un grande affetto. C’era una visione del mondo, mentre adesso c’è una strategia di marketing». Di più, lei rimpiange la Democrazia cristiana. «Che è stata un eccezionale elemento di equilibrio. Che cosa sarebbe stata l’Italia senza la Dc, il 18 aprile 1948, senza le madonne pellegrine e i comitati civici di Gedda? Inoltre, la Dc era un corpaccione grande, in cui stava dentro di tutto, dagli uomini di Stato ai faccendieri, da duri uomini di potere a qualche utopista come Dossetti». Mentre sotto Berlusconi? «Tutto si omologa, tutto diventa uguale. Prendiamo l’informazione, e a come sta cambiando: anche nei momenti politicamente più difficili una personalità come Gianni Agnelli sapeva assicurare spazi di pluralismo. L’hanno definito un sovrano, ma sicuramente era un sovrano illuminato, capace di influenzare ambienti diversi, di dare una tonalità civile al confronto politico». Se tutto diventa uguale, qual è il destino di una democrazia? «Rispondo con le parole di Andreotti: non sono profeta né figlio di profeta. Mi accorgo che io stesso ho sempre meno voglia di arrabbiarmi. Quando mi attaccano rispondo, ci mancherebbe. Anche perché gli attacchi arrivano dai voltagabbana, anzi, da gente che ha dei corredini di gabbane a disposizione, ha capito?». E allora dove sono le personalità di resistenza? Sul Colle? «Ho un affetto personale per Ciampi, di cui condivido alcuni pezzi di storia e una cultura di fondo. Mi auguro che oltre a saper guardare le cose, al momento buono sia capace anche di intervenire, sulle cose, perché ce n’è bisogno». Lei sa spiegarsi perché metà dell’Italia è berlusconiana? «Quella di Berlusconi è una vicenda politica affascinante: sembra "Beautiful", non finisce mai, anche se lo spettacolo non è straordinario. Parliamoci chiaro: questi non vogliono l’opposizione, quelli che criticano lo show, perché lo spettacolo chiede solo applausi, ha un bisogno vitale degli applausi». Quindi lei si aspetta l’epurazione? «Intanto, andiamo avanti con "Il fatto" fino alla fine di maggio. Poi dovranno decidere che cosa fare. E sarà un problema loro. Perché se non mi vogliono più, dovranno dirmelo».

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