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L’EUROPA S’È DESTRA

16/05/2002

Sarà perché la Francia è stata la vera culla dell’ideologia fascista, come scrisse Zeev Sternhell, l’autore del celebre saggio "Ni droite, ni gauche". Oppure perché, con tutte le debite distinzioni, negli ultimi vent’anni la Nouvelle droite ha furoreggiato sul piano mediatico, e il suo principale "idéologue", Alain de Benoist, è una stella fissa del radicalismo anticapitalista, antioccidentale, antiamericano. Sarà magari perché non si capisce del tutto a quale categoria politica appartenga il lepenismo: in un classico studio del 1982, René Rémond aveva composto una mappa delle destre, che comprendeva la corrente controrivoluzionaria (a partire dai "dioscuri antigiacobini" Bonald e Maistre), quella liberale degli Aron e dei Revel, e quella bonapartista, carica di pulsioni populiste e autoritarie; e Le Pen non si sa dove dislocarlo. Sarà per queste e mille altre ragioni. Altrimenti non si capirebbe del tutto il respiro trattenuto dall’Europa di fronte al successo del patron del Front national, Jean-Marie Le Pen, e all’attrazione dell’estrema destra sulle classi sottoprivilegiate. In ogni caso, senza un crogiuolo di pensiero e una "fracture sociale" misconosciuta, Le Pen non sarebbe uscito dalla maschera di ex poujadista, di "bagarreur", di torturatore in Algeria. Dal 1972 gli veniva riconosciuto solo il ruolo di federatore dei rottami dell’estrema destra, gli ex dell’Oas, i neonazisti dell’Ordre nouveau, i seguaci di monsignor Lefebvre, un’accozzaglia che aveva indotto proprio de Benoist a definire il Fronte nazionale "un fuoco di paglia". E invece. «Anche la categoria del "fascismo" è fuorviante», commenta Piero Ignazi, l’analista che ha dedicato all’estrema destra in Europa numerosi saggi: «A partire da metà anni Ottanta si è affacciato sulla scena europea un nuovo tipo di partito, molto più vicino ai conflitti della società postindustriale, di cui il Front national è il prototipo». Partiti "nazionalpopulisti", secondo l’etichetta coniata da Pascal Perrineau, come i Republikaner di Franz Schönhuber e la Deutsche Volksunion di Gerhard Frey in Germania, i "liberali" di Haider, il Vlaams Blok nel Belgio fiammingo, il Partito del progresso in Norvegia, formazioni razziste e xenofobe in Olanda. Sono esperienze politico-culturali simili in tutta Europa. Mancano del tutto i riferimenti al pensiero antidemocratico classico, a Maurras, Evola, Guenon, Codreanu. C’è xenofobia esplicita, rifiuto della democrazia rappresentativa, richiamo continuo al volere del "popolo", per "democratizzare la democrazia" (slogan di Haider), in funzione di una politica "autentica", di sostanza e non di procedura. Trovare un côté culturale simmetrico a queste visioni è arduo: non esistono infatti maître-à-penser riconosciuti dell’estrema destra attuale. In Germania, le principali personalità riconducibili alla "nuova destra", come il sociologo Henning Eichberg, coltivano terreni su cui fiorisce il concetto di "etnopluralismo" (per il quale la valorizzazione delle differenze nega l’integrazione multiculturale), e immaginano una via antagonista alla democrazia liberale percorribile dai "nazionalrivoluzionari". Puro romanticismo politico. Riviste come l’amburghese "Junges Forum" e "Junge Freiheit" (fondata nel 1986 con un discreto successo, con vendite che toccavano le 35 mila copie), battono in versione tedesca i temi cari alla Nouvelle droite. E l’intellettuale più noto contiguo alla nuova destra, lo scrittore Botho Strauss, espone concezioni metapolitiche fondate sull’auspicio di una "metanoia" dell’Occidente, un pentimento assoluto come unica chance di salvezza: la politica consiste in una serie di "emergenze" a cui non si può rispondere in termini di razionalità sociale, ma solo attraverso l’opera d’arte, con una estetizzazione totale. Se si volesse identificare un punto critico più significativo, occorrerebbe considerare il ruolo d’avanguardia interpretato a Karlsruhe da Peter Sloterdijk, filosofo noto anche in Italia per il saggio del 1983 "Critica della ragione cinica": il quale con una conferenza intitolata "Regole per il parco umano", in cui di-scuteva di "produzione di uomini" e di "antropotecniche", ha sdoganato insieme Nietzsche, Heidegger e l’eugenetica, collocandosi nella trincea opposta alla linea di pensiero che da Adorno e Horkheimer si stende fino a Habermas (che ha subito ribattuto duramente), e sistemandosi filosoficamente in una posizione tale da poter essere considerato l’anticipatore di una destra possibile in chiave di pensiero, anche se inutilizzabile politicamente. E allora, se il voto al Front national, come scrisse Perrineau su "Esprit" già nel 1988, è soprattutto «l’eco politica dell’anomia urbana», l’esito di una proletarizzazione della destra che consegna le banlieue alla protesta "nera", dove saranno i santuari culturali della destra anticapitalista? «Non in Spagna, il paese europeo simbolo della destra legittimata, che ha visto scomparire partiti espressamente neofascisti come il Frente Nacional e la Falange de la jons», sottolinea Ignazi. L’aznarismo sembra lasciare spazio solo alla "derecha" ufficiale. E in Italia? Il passaggio dall’Msi ad Alleanza nazionale, con il lavacro di Fiuggi, ha lasciato sola tutta la generazione che aveva importato le tematiche della Nouvelle droite. A partire dal politologo di Firenze Marco Tarchi, il fondatore della rivista "La voce della fogna" e soprattutto di "Diorama letterario", che ha fatto da laboratorio e da riferimento per la giovane destra non ufficiale, quella dei Campi Hobbit; e che sulla scia di uno degli spiriti più vitali dell’estrema destra italiana, Adriano Romualdi, scomparso a 33 anni in un incidente stradale nel 1973, aveva raccolto i giovani intellettuali in polemica con la polverosità dell’Msi, cioè l’allora redattore della "Notte" Stenio Solinas, il redattore culturale del "Tempo" Enzo Erra, Marcello Veneziani che era l’editor delle edizioni Ciarrapico, l’evoliano esperto di fantasy Gianfranco De Turris. La sintesi praticata dalla nuova destra italiana combinava Evola e la sua nozione del fascismo come "imperialismo pagano", la linea della Tradizione contro la Rivoluzione, e ovviamente gli autori di culto della destra alternativa: Tolkien, Gehlen, Bachofen, Simmel, Eliade, Salomon, Jünger, Schmitt. Che cosa potesse uscire di politicamente utilizzabile da questa miscela culturale è dimostrato dal ritiro dalla politica di Tarchi, e nello stesso tempo, ma in senso opposto, dal successo televisivo di Veneziani, divenuto il volto culturale ufficioso della destra moderata (ben più di un politologo del valore di Domenico Fisichella). Alla fine, benché un’onda di destra con tratti espressamente populisti abbia toccato Danimarca e Portogallo, per cercare di capire qualcosa del rapporto fra cultura di destra e politica di destra bisogna tornare in Francia. Regge davvero l’idea di una distanza incolmabile fra le posizioni di Alain de Benoist, con l’associazione culturale "Grece" e la rivista "Eléments", e il nazionalpopulismo? Nessuna osmosi fra il pensiero neopagano, "imperiale", antimoderno della Nouvelle droite e il programma lepenista? È vero che poco prima delle presidenziali de Benoist ha scritto ai giornali francesi una lettera aperta in cui sosteneva che la destra di Chirac non era votabile, fin quasi a preferirgli Jospin; ma se si guarda a ritroso, può venire il dubbio che le tesi del Grece e del cugino "club de l’Horloge" (un’associazione "nazional-liberista") contro l’omologazione delle differenze e contro il cosmopolitismo, abbiano contribuito a far circolare l’idea della "valenza positiva del tema delle differenze". Pensieri la cui eleganza li ha resi accettabili nel dibattito culturale; salvo poi trovare un uso ben più schietto nei programmi anti-immigrati di Le Pen.

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