gli articoli L'Espresso/

Quanto pesa la nostalgia

07/02/2002

Una decina di anni fa, nell’ottobre ’92, i capi del Msi festeggiavano il 70° anniversario della marcia su Roma con le braccia levate nel saluto fascista. In seguito, Gianfranco Fini e i suoi compagni di partito hanno dapprima tentato di opporsi alla riforma maggioritaria del sistema elettorale, per difendere la zattera neofascista; dopo lo sdoganamento berlusconiano sono diventati maggioritari a oltranza con la fede degli ultimi arrivati. Erano nazionalisti, lepenisti, giustizialisti, nostalgici, sono diventati europeisti, moderati, garantisti, forse già proiettati in un futuro tra le file del Ppe. La trasformazione sarebbe impressionante, se fosse autentica. Ma è bastata l’estemporanea dichiarazione alle "Iene" con cui Fini ha declassato Mussolini, l’uomo che per lui restava «il più grande statista del secolo», per scatenare la rivolta della base e dei duri alla Storace. Lasciamo perdere gli exploit "pop-fascisti" di Alessandra Mussolini («Finirete tutti circoncisi») o le giustificazioni attribuite alla vedova Almirante, che crede di difendere Fini sostenendo che quel bravo e fedele ragazzo, a dispetto delle virate, è rimasto lo stesso. Tuttavia il giudizio dei circoli passatisti di An è in esatta sintonia con i sentimenti della base. Basta uno sguardo alle cronache, per leggere discorsi di assessori e militanti che suonano tutti così: va bene, la trasformazione dal Msi in An è stata utile politicamente, ma non rinneghiamo la nostra identità, i valori, le radici. Ciò che può sorprendere è la sfrontatezza, o se si vuole il candore, con cui i militanti vecchio stampo spiegano che la trasformazione del partito è stata una manovra di copertura. Nello stesso tempo, le leadership del partito postfascista sbandierano la trasformazione dei missini in An come qualcosa che solo i faziosi possono misconoscere: «Abbiamo fatto Fiuggi, nessuno ci può giudicare». Ora, a parte che la celebre conferenza di Fiuggi era basata su un documento di evasiva qualità culturale, sembra sfuggire non solo agli uomini di An, ma anche a molti esponenti del centrodestra liberale che la reincarnazione degli ex missini è stata una delle operazioni più indolori mai realizzate: mentre gli eredi del Pci, dopo congressi, mozioni, cambi di nome e scissioni sono ancora in attesa di una piena legittimazione da parte dei loro avversari, gli ex missini possono dire a cuor leggero di non accettare lezioni democratiche da nessuno. E se invece il partito, visceralmente, fosse rimasto lo stesso? Se i progetti di monumenti ai quadrumviri, le vie intitolate a personalità fasciste, le visite ai cimiteri della Decima Mas rappresentassero la prova che il missino si piega ma non si piega, ovvero cambia ma non cambia, ci sarebbe davvero da augurarsi che l’estemporaneità postmoderna e culturalmente déracinée di Fini conduca rapidamente An nelle braccia del Ppe: perché alla lunga, anziché cullare lutti, bare, lapidi, fiamme e nostalgie, è meglio vivere ufficialmente democristiani.

Facebook Twitter Google Email Email