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Ponti d’oro a chi entra nel partito

04/12/2003

Prove di partito riformista con Michele Salvati, nel suo studio milanese. Soddisfattissimo per il lancio della lista unica. «E non è finita qui, ovviamente. Perché io auspico in maniera selvaggia e feroce che vengano dentro tutti. Tutti». Oggi esce il suo libro-manifesto, "Il partito democratico" (Il Mulino, 138 pagine, 8 euro), che raccoglie gli interventi con cui Salvati ha elaborato questo progetto politico, a partire dall’articolo pubblicato sul "Foglio" nell’aprile scorso, che aprì la discussione sulla ristrutturazione del centrosinistra. Il volume esordisce con una dedica a Nino Andreatta, «che all’idea del partito democratico arrivò partendo da un’altra tradizione politica». Questa è una sorpresa: chi ha conosciuto Andreatta sa che la sua lealtà democristiana era fuori discussione. «Non c’è dubbio. Ma è anche l’uomo che nel 1995 evocò medianicamente Prodi e quindi l’Ulivo. E dopo le europee del 1999 mise su un’associazione con Occhetto per riunire tutti gli ulivisti più accaniti». C’era anche lei. Da che cosa nasceva questa iniziativa? «Dalla convinzione che i partiti della Prima Repubblica erano finiti, e che occorresse un rimescolamento vertiginoso. Ricordiamoci che allora a capo del governo c’era D’Alema, che era considerato il campione dell’anti-ulivismo». D’Alema ha sempre negato questa etichetta. «L’idea di D’Alema era quella del "paese normale". In un paese normale occorreva un forte partito socialdemocratico che non delegasse a nessuno la rappresentanza dei ceti medi. Vedeva la competizione fra centro e sinistra nel senso di "chi ha più filo tesse più tela". Attraverso i passaggi successivi delle elezioni regionali e politiche si sarebbe individuato un candidato Ds alla guida della coalizione. Avesse funzionato questo modello, dell’Ulivo non si sarebbe parlato più». Non era un calcolo irrazionale. «Personalmente non avevo nulla contro questo punto di vista. Se funzionava, funzionava. Ma non ha funzionato. E a mio giudizio non poteva funzionare in Italia a causa della storia del Pci, della sua vocazione egemonica, vera o paventata. I socialisti rimasti nel centro-sinistra, a cominciare da Boselli, la temevano moltissimo: mentre oggi sono esplicitamente a favore del partito riformista proprio perché non si profilano egemonie postcomuniste». Nell’introduzione al suo libro, lei enuncia una «tesi forte», a proposito del partito democratico. Secondo cui oggi le differenze culturali e ideali fra i partiti riformisti del centro-sinistra non hanno più senso. «Penso che queste differenze e la separatezza organizzativa erano significative nel passato, mentre oggi derivano da ragioni di inerzia e di trascinamento». Non la pensano così Cossiga e Mancino, per citare due personalità della tradizione politica cattolica. «Se è per questo, la contestano in chiave socialista o socialdemocratica anche figure come Salvi o Macaluso. Tutti coloro che pensano ancora alle identità politiche come una risorsa da mantenere all’interno delle sigle di partito. Oppure, il caso più estremo, quelli come Martinazzoli e Mastella, che puntano alla scomposizione del formato bipolare». Qualcuno ci ha provato, con esiti trascurabili, come Sergio D’Antoni. «E qualcuno continua a pensarci. Una volta Carlo Giovanardi mi ha detto: "Michele, sei sempre per l’alternanza? Ma non capisci che questo nostro paese fa fatica a esprimere un ceto dirigente? E come può fare a esprimerne due?"». Quindi si culla l’alternativa al bipolarismlo: sistema proporzionale, Costituzione immutata, stabilizzazione al centro. «Questa visione muove dalla convinzione che l’Italia è un paese caotico, tendenzialmente ingovernabile, e che dunque occorre una classe dirigente che lo disciplini. Però così torneremmo a un’oligarchia immutabile. Ai tempi in cui sempre Andreatta sosteneva che in Italia non cambiavano i governi, ma solo i ministri». Confessi che in passato ci ha pensato anche lei. «Certo che ci ho pensato, e spesso: ma solo perché questa prospettiva, che ha una sua forza pessimistica, è il nemico. Ah, che piacere, formare un monoblocco ed eliminare dal gioco leghisti e rifondazionisti. Chi pensa che la nostra società è un conflitto permanente di guelfi e ghibellini è attratto dal richiamo oligarchico». Mentre lei coltiva la speranza. «So che l’alternanza, e quindi la prospettiva del partito democratico, è una scommessa. Tuttavia ci sono alcuni aspetti che suggeriscono di buttarsi sulla strada nuova e di accettare l’azzardo». Fra questi aspetti, il fatto che all’elettorato minuto non interessa più nulla delle identità di partito. «Non solo. Gli innamorati dei partiti storici sembrano non rendersi conto che i due partiti principali erano profondamente anomali. Il Pci non aveva potenzialità di sviluppo in un paese capitalistico avanzato, e inseguendo se stesso ha perso tutte le occasioni: l’ultima, tra la fine degli anni Settanta e l’avvio degli Ottanta». La condizione della Dc era diversa. Avrebbe potuto trasformarsi in un partito popolar- conservatore come la Cdu tedesca. «Già, il suo ruolo oggettivo era di essere il baluardo anticomunista. Ma proprio per questo i due giganti erano avvinti l’uno all’altro. Inoltre da noi c’era la presenza della Chiesa, e l’impossibilità pratica per un cattolico di situarsi in un partito socialista. Un Delors italiano era inconcepibile». Quindi quando cade il Muro… «La Dc si trova aggrappata a quei mattoni che cadono. Viene fuori Berlusconi perché la Dc non si trasforma in una destra moderata e il Pci non riesce a diventare socialdemocratico, non si unisce al Psi. Per questo ora c’è da guardare con interesse all’azione di Gianfranco Fini: vuole fare lo Chirac italiano, occupare uno spazio moderato? Bene, disegno alto, barriera anti- populista: viva Fini». In conclusione, anche D’Alema se n’è fatto una ragione e ha cambiato idea. «Ha preso atto della sconfitta di una grande e bella prospettiva. Di fronte a un paese "non normale" si è convinto che ci vogliono soluzioni non tradizionali». Nel suo libro lei afferma che insieme al processo di ristrutturazione politica occorre anche un’operazione culturale "revisionista". «È vero, ma per me la revisione non va effettuata sul fascismo o sulla Resistenza. Va rivista o revisionata la storia della Repubblica. In primo luogo per rendersi conto che l’autoesclusione della sinistra ha impedito la normalità democratica, e ha favorito il "governo unico" di cui parlava Andreatta, e quindi l’immobilismo». Sa qual è l’obiezione? Questo è senno di poi. «Il senno di poi è inevitabile perché siamo nel "poi". Altrimenti ricadiamo nelle buone intenzioni, in cui il Pci era maestro: abbiamo combattuto, sofferto, abbiamo scelto la strada della moderazione, non abbiamo fatto come il partito comunista greco e abbiamo salvato l’Italia dall’autoritarismo. Tutto vero, ma di buone intenzioni è lastricata la strada della palude». Altra obiezione: quando lei fece l’appello per il partito riformista il suo disegno era un altro, rispetto alla lista unica. Esprimeva l’intenzione di separare i riformisti dagli antiriformisti, spezzando i Ds. «L’appello dell’aprile scorso nasceva anche dalla consapevolezza che Sergio Cofferati appariva come il potenziale riunificatore della sinistra-sinistra. Aveva fatto la battaglia sull’articolo 18, sui diritti, si era rivolto ai movimenti e ai girotondi: era il ritorno in campo, con il prestigio del leader della Cgil, di un programma che puntava a riorganizzare tutta la sinistra radicale, dal Correntone ai No global, in un unico soggetto politico. Per cui a mio avviso occorreva una risposta immediata sul versante riformista». Il progetto di Cofferati è rientrato. «Già. Ma si è chiesto perché fallisce?». Perché Cofferati non va fino in fondo. «Perché è un vero militante, convinto, intriso di identità, e giunto alla resa dei conti non vuole rompere il suo partito». A questo punto come si misura il successo della lista unica sul piano elettorale? «Si misura nel confronto con il 2001, osservando se l’insieme produce più voti dei partiti singoli. E anche se supera di un voto Forza Italia». Qualche rischio per Prodi c’è, candidato o no? «È la prova decisiva: si gioca il suo futuro politico». Ma è sufficiente, pensando al futuro, l’unificazione fra Ds, Margherita, Sdi e Repubblicani europei? «Spero con tutto il cuore che un’area esterna entri, in vista delle europee. Qualcuno deve entrare, in qualche forma: ponti d’oro, bisogna fargli. Ponti d’oro». Secondo alcuni centri di ricerca la lista unica porta valore aggiunto perché sgrava gli elettori di centro-sinistra dal problema di scegliere l’identità smarrita. «Questo è il motivo per cui selvaggiamente e ferocemente auspico che vengano dentro tutti».

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