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Sindrome svizzera

30/10/2003

La vittoria elettorale del miliardario xenofobo Christoph Blocher è la fotografia perfetta della sindrome svizzera, un’isola immune accerchiata dall’Europa contaminata di Schengen. Nello stesso tempo, il successo dell’Unione democratica di centro appare come l’altrettanto perfetta metamorfosi del populismo di destra: abiti perbene, «non abbiamo niente contro gli immigrati regolari e con un contratto di lavoro, ma la gente ne ha piene le palle dei clandestini e dell’illegalità»; con una sbrigatività che sembra confermare a puntino le analisi di politologi come Piero Ignazi, che avevano diagnosticato per tempo la trasfigurazione della destra europea. Ecco, niente più folklore nazista, revival hitleriani, razzismo esplicito, intolleranza verso tutto ciò che è altro: piuttosto, una miscela di legalitarismo e mano dura, con la mobilitazione elettorale delle fasce sociali più impressionabili dal "disordine sociale" introdotto dall’immigrazione. Dopo di che, l’altro termine di confronto è dato dai viaggi della morte, i barconi che arrivano nelle acque di Lampedusa offrendo spettacoli raccapriccianti, cadaveri in coperta, gente allo stremo delle forze, bambini gettati in mare in quanto «erano già freddi». Tutto questo aiuta a comprendere che il fenomeno immigratorio non è, o non è tutto, controllabile attraverso la legislazione e le misure di ordine pubblico. Così come il problema non si risolve configurando gli immigrati come lavoratori ospiti, "Gastarbeiter" alla tedesca. La legge Bossi-Fini connette la regolarità dell’immigrazione alla condizione lavorativa dell’immigrato. Una scelta apparentemente ragionevole, in realtà una fonte implicita di diseguaglianza etica e civile. Se io, io ghanese, magrebino, senegalese, pachistano, vengo qualificato prima di tutto in base alla mia qualità di lavoratore ospite, ciò significa che la mia è una cittadinanza di serie B, se non meno. E sotto questo profilo la proposta di Gianfranco Fini sull’estensione del diritto di voto amministrativo agli immigrati regolari non è stata discussa come meritava. Fuori dalla Casa delle libertà molti hanno rilevato la strumentalità del contropiede finiano, che ha inserito un cuneo tra Forza Italia e la Lega portando a una tensione mai osservata finora i rapporti politici nel centrodestra. Tuttavia il problema sollevato da Fini è più sottile. Perché non si capisce in base a quale criterio la cittadinanza deve essere divisa in due: se un immigrato lavora in Italia, paga le tasse in Italia, rispetta le leggi italiane, iscrive se stesso in un circuito di diritti e doveri che lo qualificano come cittadino, e non come ospite, non si capisce perché avrebbe il diritto di mettere becco nell’elezione del sindaco e invece non nell’elezione della Finanziaria, e delle leggi generali dello Stato, con il voto alle elezioni politiche. Vale a dire che più che qualche forma di chance elettorale, limitata e circoscritta, l’obiettivo semmai è quello di definire il momento e le forme in cui un lavoratore ospite diviene a tutti gli effetti un cittadino di questo nostro paese. Altrimenti, c’è una piccola sindrome Svizzera anche per noi, e per tutti quelli che pensano che l’immigrato possa essere esclusivamente un cittadino transeunte, figlio di divinità minori, inabilitato a contribuire alla vita politica di un paese moderno e civile. Di sicuro noi sappiamo solo che da un lato vediamo le barche dell’orrore, segno che le migrazioni sono fenomeni estremamente complessi e sostanzialmente irriducibili al "law and order" marittimo; e dall’altro lato vediamo la risposta irriflessa di fasce sociali che ripiegano nella xenofobia intendendola come un’autodifesa. Fra questi due estremi, c’è una varietà di condizioni: l’immigrato come forza lavoro, come risorsa per le aziende e l’economia, e come marginale attratto dai circuiti illegali. Manca solo l’immigrato in quanto cittadino. E solo un moderatismo convenzionale e ottuso può pensare di evitare questo tema e di ritenerlo accessorio o superfluo: quando in realtà è l’unico che introdurrebbe una principio radicale di razionalità nei processi sempre più difficili della convivenza.

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