gli articoli L'Espresso/

Cgil, amore e tormento

15/05/2003

Quando la lotta si fa più aspra, la vita sindacale è una strana miscela di passione, sudore, vertenze infiammate, cortei e picchetti, faccia a faccia con industriali e poliziotti: «Per settimane ho viaggiato con una ventina di bandiere rosse, cartelloni bianchi, pennelli e un bidoncino di vernice rossa nel portabagagli della mia R4». Sono parole di Adele Grisendi, la "bellezza in bicicletta" del suo fortunato libro precedente, che raccontava un’infanzia e un’adolescenza in un paese dell’Emilia più profonda e vera. Questa volta invece sono storie di sindacato, raccolte in un nuovo libro, "La famiglia rossa", che Sperling & Kupfer manda in libreria il 13 maggio (320 pagine, 14 e). Si può raccontare la vicenda della Cgil guardando al vertice. L’organizzazione di Lama, Trentin, Cofferati, oggi di Epifani. I loro dilemmi, le loro strategie. Grisendi ha scelto invece di raccontare una storia volutamente minore, in cui una donna descrive «passioni, contrasti, vendette» in cui è stata coinvolta. Vendette: una parola cattiva. Già, talvolta le traiettorie individuali si scontrano con le logiche di potere presenti anche nella massima organizzazione dei lavoratori: «Per motivi politici e di politica sindacale, e poi per ragioni di potere interno, per antipatie e inconciliabilità caratteriali o per gelosie reciproche». E anche perché nel sindacato a volte «gli scontri sono duri e non sempre vengono combattuti in modo leale, tanto da creare grandi sofferenze». Qualcuno ci lascia un po’ di sé, della propria vita, del proprio sentimento, delle proprie speranze. Da poche settimane Grisendi è fuori dalla Cgil. «Ne sono uscita in pace, con serenità», confessa agli amici con un sussurro. Era entrata nella "famiglia rossa" giovanissima, dopo avere rinunciato all’idea di frequentare l’Isef, con il padre che aveva sbottato: «Ho cominciato a tirarmi il collo come un grande che non avevo ancora sette anni, e dovrei mantenerti ancora?». E allora, «al diavolo la ginnastica»: per orgoglio, per rabbia, per mettersi in gioco entra subito in fabbrica. Lo sfondo è la "Città rossa", cioè Reggio Emilia, l’anno è il 1968: mentre una generazione prova a immaginare la rivoluzione, la ventenne Grisendi, apprendista operaia, si ritrova a ritagliare con le forbici modelli di abiti per bambine, 11 ore di lavoro al bancone, le mani che «facevano un gran male». Però niente piagnistei. C’è piuttosto un minimalismo narrativo che non nasconde la durezza del lavoro, ma la assimila come una prova costante per la propria volontà. E che con pochi tratti riesce a dipingere il clima di quella stagione, mentre incombe l’autunno caldo, in cui uomini e donne, nelle aziende, cercano insieme di sfuggire a «un retroterra di sfruttamento e di fatica». L’ingresso nella Cgil arriva quasi subito, con l’assunzione in ospedale come «impiegata archivista del reparto di radiologia, ma con la qualifica di inserviente». Dequalificata, insomma. Senza tessera di partito, che arriverà poco più tardi con l’iscrizione al Pci di Enrico Berlinguer, ma già combattiva; e subito appassionata all’idea di condividere le angosce e le speranze della sua comunità, la vicinanza con le persone che rivendicano gli stessi diritti. Perché «c’è chi nasce con la propensione per gli affari, chi con la vocazione religiosa e chi con il genio dell’artista. Ma c’è anche chi scopre di provare interesse per i problemi degli altri, per farsene carico senza perseguire utili personali», nel nome di un «comandamento laico» che si oppone alle ingiustizie. Scritte oggi, nell’età della felicità privata, dell’egoismo esibito, espressioni come questa sembrano un anacronismo. Archeologia della moralità del lavoro. Sentimenti usurati dalla modernizzazione vertiginosa dell’Italia dell’anti-politica. Ma è inutile indulgere al rimpianto per quegli anni in cui la solidarietà collettiva rappresentava un terreno su cui praticare la politica direttamente, con la percezione immediata dei ruoli e degli schieramenti. Era un mondo più semplice, certo. Destra, sinistra, padroni, lavoratori. Tuttavia anche quel mondo era difficile, irto, ricco di continue sfide anche personali. Basta seguire la "carriera" dell’autrice, divenuta nel 1976 sindacalista a tempo pieno, per condividere talora con commozione le sue ansie, il desiderio di mettersi alla prova, il tremore ma anche la consapevolezza con cui accetta incarichi che le appaiono superiori alla sua preparazione, e quindi la dedizione assoluta verso la "famiglia rossa" e le persone da essa riunite. Il suo soprannome è Niki Lauda, per la sua velocità nella pista cigiellina. Funzionario a tempo pieno nella Val d’Enza, dopo un corso di formazione di 20 giorni nel centro della Cgil ad Ariccia. Comizio d’esordio, il Primo maggio del 1977, dopo giorni di terrore al pensiero di salire su un palco. L’impegno femminista, nello sforzo di aprire il sindacato ai problemi delle donne, la lotta contro i turni di notte, la battaglia per la legge sull’aborto anche contro le prudenze del Pci. La crescita nei ranghi del sindacato, fino all’assunzione di un ruolo di rilievo nella Fiom locale: una donna (una donna!) a capo dei metalmeccanici. Poi succede qualcosa. Qualcosa di indefinito. Un dito lasciato inavvertitamente nel rapporto fra la componente comunista e la minoranza socialista della Cgil. Mezze calunnie come refoli di vento fra i corridoi del sindacato. Troppo "di destra", la Grisendi? Un capo che le nega la fiducia, l’emarginazione, gli sguardi distolti dai compagni, il saluto dissimulato. È la parte del libro destinata a suscitare più discussione, forse fastidio: per la sincerità con cui è raccontata, ma anche perché apre uno squarcio su una realtà di gelosie, di acredini, di giochi e trappole che colpiscono non solo una sindacalista ma una persona. Se nei primi capitoli il libro non si negava qualche ricordo scanzonato, venato di simpatia e di ironia sulle amicizie, sulle donne conosciute nel sindacato, sulle giornate passate alla libreria Rinascita della Città rossa, sulla grande politica e gli esponenti nazionali che illuminano con il loro carisma le feste dell’Unità (le figure di Amendola, Nilde Iotti, Lama, Bertinotti), dopo c’è solo il buco nero del conflitto interno, qualcosa che assorbe tutte le energie, che umilia e svuota. Verso la fine del suo racconto, Grisendi è sopraffatta da una sconfitta immeritata, anzi, insensata: «Non avevo più nulla a cui aggrapparmi. Il capo della Cgil della Città rossa aveva vinto la sua guerra contro di me. Una piccola dirigente che contava poco, che non poteva fargli ombra, ma che si rifiutava di prendere ordini e che, infine, era una donna». Già, una donna. Ma una donna ambiziosa, "frazionista", sotto accusa perché additata come segno di divisione. «Tutto questo», scrive Grisendi, «non si vede quasi mai (…). Vige la ferrea legge del silenzio, perché l’interesse della famiglia viene prima di tutto, a volte prima del rispetto che si deve a ogni persona». Qualcuno potrebbe usare la parola "stalinismo". L’autrice non lo fa. Il suo libro si chiude con il 1983, l’anno in cui lascia l’Emilia per un ruolo con la Cgil nel Veneto: «A restituirmi la mia casa, fu la serenissima Venezia». Oggi, con questa confessione pubblica, una piccola storia può gettare luce anche sulle regole e le abitudini di una grande organizzazione, sulle sue incoerenze, sulle «umane debolezze di molti suoi dirigenti»: e sulla speranza non completamente tradita né perduta di una ragazza rossa che nonostante tutto non ha smesso di appartenere al suo mondo.

Facebook Twitter Google Email Email