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Il prezzo dell’avventura

13/02/2003

Nel programma della Casa delle libertà la separazione delle carriere non c’è. E se anche ci fosse è tutto da dimostrare che il sempre evocato popolo, votando per il centrodestra, avrebbe dato il suo imprimatur a quello specifico tema, "ungendo" di consenso la riforma del sistema giudiziario. L’idea che il voto dei cittadini possa tradursi direttamente in leggi è infatti uno dei capisaldi dell’azione populista. Ora, l’accusa di populismo non piace al centrodestra, anche se al suo interno ci sono partiti come la Lega e Alleanza nazionale, nonché alcuni settori di Forza Italia, che hanno sempre manifestato un’esplicita vocazione in questo senso. Ma nel caso delle riforme annunciate o minacciate contro la "corporazione" dei giudici il populismo è al massimo uno sfondo, non il motore politico dell’azione di Berlusconi. L’aspetto implicitamente più distruttivo è reso evidente dalla successione degli avvenimenti. La Cassazione, interpellata in base alla legge Cirami, si riunisce, esamina e sentenzia respingendo la richiesta di legittimo sospetto su Milano. Immediatamente, la suprema corte, a cui prima si riconosceva da destra un’altissima competenza giurisprudenziale, viene ridimensionata a semplice componente di un blocco corporativo. L’offensiva berlusconiana non si ferma davanti a nulla: se non c’è un giudice neppure a Berlino, ci sarà a Helsinki, o a Capo Nord; oppure in un sistema giudiziario alternativo, ancora tutto da costruire. Ciò che non smette di sorprendere è il riflesso collettivo che afferra l’intera Casa delle libertà allorché risuona lo squillo di tromba berlusconiano. Nel volgere di poche ore tutto il personale politico di maggioranza si è schierato a tutela del capo, presentandolo come la vittima di un potere irresponsabile. Su questi argomenti il leader supremo non consente defezioni: quindi scatta un coro di sostegno indiscriminato, esente dalla minima obiezione. La Casa delle libertà diventa una macchina da guerra. L’effetto distorsivo sull’equilibrio istituzionale è patente. Ma anche le conseguenze politiche sono pesantissime: se, come un sol uomo, il centrodestra dichiara che è ora di risolvere una volta per tutte il "problema" giudiziario, la prospettiva che viene agitata è quella di uno sfondamento costituzionale; e nel medesimo tempo la controparte di centrosinistra viene consegnata a un mesto ruolo di conservazione. Lo stesso meccanismo era stato innescato con il progetto della riforma presidenzialista: con una indubbia efficacia sul piano pubblico, ma con palesi forzature strumentali. È perfettamente comprensibile infatti che Berlusconi avverta la necessità di mobilitare di continuo il consenso intorno alla propria figura, soprattutto se i risultati dell’esecutivo, fuor di propaganda, appaiono mediocri; e ciò anche se non si capisce bene che cosa manchi ancora alla Casa delle libertà per poter esprimere una chiara capacità di governo. Non i numeri alle Camere, non la coesione parlamentare, quando occorre; non c’è la minima possibilità, fra l’altro, che possano verificarsi ribaltoni (per il presidente della Camera saranno un «cancro della democrazia», ma al momento la salute della maggioranza, da questo punto di vista oncologico, non corre alcun rischio). Si vede piuttosto una strategia unilaterale, tesa a determinare una divisione manichea fra i riformatori presunti, i grandi innovatori istituzionali, e gli avversari delle riforme, cioè i conservatori, se non i reazionari, dell’opposizione. Le conseguenze saranno formidabili per tutta la Casa delle libertà, che verrà investita dal soffio vitale della mobilitazione politica permanente, mentre il derelitto Ulivo di questi tempi dovrà rassegnarsi a svolgere un faticoso e frustrante ruolo di interdizione. Solo che tutto questo ha un nome e un prezzo: il nome è avventurismo, e il prezzo è l’avvio di una stagione di distorsioni istituzionali. Cioè di "sbreghi" costituzionali, come a suo tempo li chiamava Gianfranco Miglio, auspicandoli; di inquietanti concentrazioni di potere, per coloro che temono l’uso improprio, cioè tutto politico, delle riforme dettate dal leader.

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