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Buonanotte Cavaliere

18/11/2004

Zot! Come in un fumetto il fulmine vendicatore dei sondaggi si abbatte sul Cavalier Silvio Berlusconi. Lo schianto di otto punti in meno per Forza Italia, non appena arriva la notizia che il taglio delle tasse è stato rinviato all’anno prossimo, ossia a mai più. Sommiamoli tanto per gradire agli otto punti perduti alle elezioni europee e la prima conclusione è desolante: il premier è in avanzato stato di decozione. Romano Prodi e la Gad stanno avanti di dieci punti. Il suo ministro Domenico Siniscalco si è appoggiato al Quirinale, ai poteri forti, alle banche, al governatore Fazio: ha fatto balenare al suo premier cifre fantomatiche, gli ha ripetuto in continuazione che si poteva fare una finanziaria «di rigore e di sviluppo», ed ecco il risultato. Straziante. Agghiacciante. Raccapricciante. Bambole, non c’è una lira. Al massimo due soldi per l’Irap, ma diffusi come un’elemosina, sicché Luca Cordero di Montezemolo può permettersi il sarcasmo: «Un balletto umiliante». E Piero Fassino, commentando i pochi euro delle detrazioni alle famiglie: «Se va bene è una pizza, se va meno bene un pacchetto di sigarette». I più cinici, nel partito del Capo, fischiettano: «Ahi Forza Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello», e sottolineano non tanto l’ascendenza dantesca dei versi, quanto l’aspetto casinistico e bordellesco della situazione. Cambiare il ministro dell’Economia non è consigliabile, anche se ha ciurlato nel manico. A chi risponde Siniscalco?, si chiede nevroticamente il Cavaliere. E a chi risponde il Ragioniere generale dello Stato Vittorio Grilli? Il sospetto è l’anticamera del fallimento. «Voglio vedere i conti della finanziaria, punto per punto e taglio per taglio». Vederli personalmente. È vero che l’occhio del padrone ingrassa il cavallo, ma è tardi, disastrosamente tardi. Manca niente alle elezioni regionali del 2005, un soffio alle politiche del 2006. E Berlusconi si sta disintegrando. Si disintegra il berlusconismo, fantastica bolla di euforia e di mediaticità, si sfalda il Contratto con gli italiani firmato davanti a Bruno Vespa, si deprimono gli elettori del centrodestra, si sgonfia il sogno alimentato da Mediaset. L’establishment economico ha già emesso il suo pollice verso: non è gradevole assistere agli sketch di un imprenditore che si è autoprestato alla politica e che al momento buono (vabbè, cattivo) non trova di meglio che dare la colpa agli alleati, al debito pubblico, alle politiche «insensate» di qualche decennio prima, all’11 settembre, a D’Alema e Amato. «Ci sono solo io che voglio ridurre le tasse», e dai. Che si rivolge alla Guardia di Finanza dicendo «sono più contento di essere io da voi di quanto non sarei se foste voi da me», e ribadendo la fiaba tremontista e anarco-liberista dello Stato «criminogeno» che rende morale evadere oltre la soglia etica del 33 per cento di tasse sul reddito. In altri tempi, Berlusconi avrebbe raccontato barzellette epocali, come quella, storica, che rappresenta una delle sue migliori interpretazioni. Suonano alla porta. «Chi è?». «I ladri». «Meno male, credevo fosse la Finanza». Ma il premier deve avere intuito che il momento non è favorevole alle storielle. La verifica sembra effettivamente "neverending", come il tour di Bob Dylan, con i protagonisti che trasformano continuamente sempre la stessa vecchia canzone. Il rimpasto è infinito e mai realizzato, ma continuamente ipotizzato o minacciato, con il ricatto a Marco Follini perché entri nel governo come vicepresidente, e la proposta a Gianfranco Fini come candidato a guidare la Farnesina. In proposito, si sussurra nelle stanze del ministero degli Esteri, andatevi a rivedere quello che Francesco Storace raccontò al "Giornale" nel dicembre 1994: «Un giorno Fini si avvicina a un gruppo di giapponesi e con i suoi modi sussiegosi li ricopre di insulti, sicuro che quelli non lo avrebbero capito: "Pidocchiosi, teste di cazzo, coglioni". Così, per ridere. Anche loro ridevano…» (per i filologi, l’episodio si trova documentato nel libro di Gian Antonio Stella "Tribù", e appare un viatico eccellente per la nomina a ministro degli Esteri di Fini, nonché come contributo ulteriore al "Farnesinian Style"). Ma la crisi estenuante di Berlusconi non è soltanto una questione di aneddoti. Ciò che è svanito è l’alone mitologico, l’aura imprenditorial-carismatica intorno al capo del Capo. Come si sa, la vicenda dell’Uomo di Arcore con l’élite economica italiana è stata sempre irta di difficoltà. L’establishment mise alla prova Berlusconi una prima volta nel 1994, a governo insediato, e fu l’Avvocato a invitare il Cavaliere nella sua residenza romana, insieme al meglio dell’industria nazionale. I Marzotto, i Merloni. Risultato: un verdetto senza appello, in cui il Gotha imprenditoriale stabilì che Berlusconi non sapeva tenere le posate a tavola, e mostrò il suo pollice verso, destinato a fare sentire i suoi effetti quando il capo del centrodestra tentò la prova di forza nell’autunno del suo governo, sfidando i sindacati sulle pensioni. D’altronde, proprio il rapporto fra Casa Agnelli e Berlusconi è sempre stato il termometro della relazione instabile tra i poteri forti e il Cavaliere. Per rileggere queste vicende molto alterne è utile il libro di Alberto e Giancarlo Mazzuca, "La Fiat: da Giovanni a Luca. Un secolo di storia sotto la dinastia Agnelli", pubblicato di recente da Baldini Castoldi Dalai: si può ricostruire così la diffidenza del Lingotto nel momento della inattesa e drammatica sconfitta di Carlo Callieri al vertice della Confindustria con l’elezione di Antonio D’Amato: «Hanno vinto i berluschini», secondo il commento a labbra tirate dell’Avvocato. Poi il via libera di Torino al secondo governo Berlusconi nonostante gli attacchi distruttivi dell’"Economist", «non siamo una Repubblica delle banane», e il successivo amarissimo pentimento di Gianni Agnelli al momento della liquidazione dell’inviato della real casa Renato Ruggiero: «Macché banane, siamo una Repubblica dei fichi d’India». Il sintomo centrale della malattia berlusconiana è proprio il rapporto con l’establishment economico. Finiti in archivio i trionfi, come l’exploit a Parma in vista delle elezioni del 2001, in cui si rivolse a 2 mila imprenditori entusiasti gridando al sodale D’Amato «il vostro programma è il mio programma!», e giurando su una crescita del 4 per cento. Dimenticato il "magic moment" scandito dalle dichiarazioni del governatore della Banca d’Italia secondo cui davanti all’Italia c’era «un miracolo possibile». Esaurite anche le dimostrazioni di muscolarismo, con le maniche arrotolate sui gomiti per mostrare il porco lavoro e la fatica esaltante di chi sta nella «trincea del lavoro». Adesso, anche nei santuari del potere economico, nei circoli ristretti nella "nuova classe" rappresentata dall’azionariato della Rcs, nel circuito bancario, i Tronchetti Provera, i Profumo, i Della Valle non nascondono la convinzione che «Berlusconi ha dato quello che poteva dare». Dal canto suo, dopo anni spesi nel tentare di mobilitare le folle sulla ripresa continuamente in arrivo, il "bagalun d’luster", secondo la definizione di Franco Cordero, l’imbonitore da fiera popolare sembra avere esaurito il repertorio, i dulcamara, gli elisir, le scatolette di lucido da scarpe. Ha lasciato cadere senza nessun sussulto morale il suo uomo forte, «il nostro centravanti di sfondamento», Giulio Tremonti, che adesso ha buon gioco nell’incenerire il suo doroteismo quotidiano, «il relativismo cedevole del giorno per giorno». Senza nemmeno accorgersi, per un accesso di viziosità politicante, che Tremonti non era soltanto un ministro: rappresentava la saldatura istituzionale con il popolo delle partite Iva, con quella piramide di lavoro autonomo che aveva creduto nelle promesse liberalizzatrici del Cavalier Libertà. Tolto lui, si affloscia il castello di carte del blocco sociale di centrodestra. Gli effetti della commedia berlusconiana sfidano il grottesco: preso in un balletto demoniaco, Silvio II sembra un attore che si rivolge in ogni direzione nella speranza ansiosa di trovare un appoggio o un conforto. Di fronte a una crisi essenzialmente, costitutivamente, ontologicamente politica, passano in secondo piano anche gli otto anni di condanna chiesti da Ilda Boccassini al processo Sme. Mentre i suoi sostenitori scuotono la testa, e mentre i ras territoriali come Gianfranco Micciché fanno la voce grossa, perché Forza Italia è un microfeudalesimo, una federazione di vassalli e valvassori ognuno dei quali può esercitare qualche minaccia, Berlusconi torna alle origini. Si consulta con Umberto Bossi, cercando un "idem sentire" e facendosi consigliare sulle scelte politiche da perseguire. Nel frattempo, in questa frenesia apparentemente senza scopo, sembra impersonare la tipica figura dell’imprenditore a cui il responsabile di settore ha nascosto fino all’ultimo il cattivo andamento delle vendite. L’azienda, insomma il governo, è rovinato: occorrerà abbattere il capitale sociale, ricorrere ad aumenti di capitale, alla finanza creativa, a qualsiasi cosa: quanto al miracolo italiano… Zot, un fulmine lo ha bruciato.

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