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2004 fuga dal Biscione

21/10/2004

Mediaset precipita, Canale 5 si inabissa, gli ascolti delle sue tv franano, e Silvio Berlusconi è scocciato. La Rai invece decolla, il che farebbe pensare che la televisione pubblica ha finalmente capito la lezione e ha imparato come si fa a battere la televisione commerciale. Ci ha messo anni, vive nella posizione equivoca di chi gode del canone e della pubblicità, si trova in una zona grigia fra il condizionamento politico e la decenza professionale, ma sta vincendo la battaglia dell’audience. E le implicazioni possono essere colossali per il sistema televisivo. Che la Rai vinca la partita dell’etere sembra davvero qualcosa di sconvolgente. Che un direttore generale come Flavio Cattaneo, traslocato dal settore fieristico a Saxa Rubra per volontà politica, possa battere le reti del Cavaliere è un prodigio che appartiene agli enigmi dell’Italia contemporanea. Evidentemente il problema ormai non riguarda soltanto la qualità televisiva, il successo dei programmi, il rendimento delle fiction o dei talk show in termini di share: ci dev’essere qualcosa, un fermento o un virus, che agisce dentro il sistema televisivo, e altera l’equilibrio fra pubblico e privato. La prima spiegazione è quella classica, "Graecia capta ferum victorem cepit": messa a confronto con la spregiudicatezza della televisione commerciale, la Rai lottizzata e clientelare ha imparato le tecniche necessarie a guadagnare ascolti e alla lunga ha messo nell’angolo la tv concorrente. Tanto per dire, se Mediaset possiede un reality show infallibile come "Grande Fratello", con la sua parata di freak, specchio della società che si rispecchia nella tv, la Rai può rispondere con "L’isola dei famosi", ossia un trionfo del trash televisivo capace di attrarre i fan di Alessia Merz come anche un pubblico "alto" propenso periodicamente all’ingaglioffimento. Il mercato è il mercato, l’audience è l’audience, la tv generalista è la tv generalista chiunque la faccia, ed era impensabile che una struttura come quella della televisione pubblica rimanesse inerte per sempre di fronte all’aggressività delle reti Mediaset. Tanto più che il plantigrado Rai sarà un animale amorfo, ma proprio perché è pletorico negli organici è anche in grado di estrarre dalla sua pancia una varietà infinita di trasmissioni. Programmi di massa e programmi di nicchia. Programmi per ogni tipo di pubblico. Fiction e documentari storici di classe. Mediaset al suo meglio è capace di produrre "Terra" di Toni Capuozzo, vale a dire un programma ben costruito ma di impatto non decisivo sull’opinione pubblica; la Rai invece può produrre "Report", in cui Milena Gabbanelli dà fondo a un brillante populismo di sinistra, fondato sul rigore implacabile dell’approfondimento, con toni e stile da maliziosa "ombudswoman", tale da incollare al teleschermo quelli che fanno tendenza, anche se magari antipatizzano. Ma ci può stare anche un’altra spiegazione, "di sistema". Come ha illustrato ripetutamente un conoscitore come Aldo Grasso, il pubblico della televisione generalista è largamente frainteso dagli esperti, e in particolare dagli operatori pubblicitari. Lo spettatore-massa è una pensionata meridionale, a bassa scolarità, fortemente esposta al consumo televisivo, tendenzialmente conservatrice in politica. Non si tratta di un pubblico da conquistare, ma eventualmente da suddividere e redistribuire, magari con fumettoni antirealistici come "Elisa di Rivombrosa". Ma questo settore di audience non è propriamente significativo in chiave di consumi vistosi e qualificati. È sfasato rispetto al linguaggio pubblicitario, un lessico ipersofisticato grazie alla creatività dei copywriter, alle canzoni di sfondo che richiamano gli anni Settanta più ammiccanti, alle citazioni dai film di culto, allo Spike Lee che globalizza mediaticamente Gandhi. Il pubblico generico conosce al massimo "che ne sai tu di un campo di grano" e sarebbe in grado di battere le mani a tempo sulla Riva bianca e la Riva nera di Iva Zanicchi: tanto poi al Parlamento europeo ci mandano Gawronski e alle suppletive l’aquila di Ligonchio viene impallinata a suon di firme clandestine. Ma il pubblico generico al massimo sostituisce la lavatrice ogni dieci anni e si fa impressionare tutt’al più dai detersivi al sapone di Marsiglia. Vecchie mercanzie. Piaccia o no politicamente, il cavalier Silvio non è un tipo capace di amministrare una manomorta residuale. L’impresa è l’impresa. Forse la televisione come lui l’aveva intuita negli anni Ottanta è già una reliquia: seguita ancora da processioni adoranti, ma senza più essere la frontiera della modernità. La modernità è altrove. Oltretutto, dal punto di vista politico Mediaset non ha mai smesso di essere un ingombro poco elegante. Qualsiasi imbecille, in Europa, può permettersi di trattare re Silvio come un manipolatore postmoderno della politica e della società, proprio a causa della nuda proprietà delle reti Mediaset. Al diavolo. La storica battuta di Enzo Biagi su Berlusconi, «se avesse una puntina di tette farebbe anche l’annunciatrice», si avvia all’archivio. La frontiera dell’innovazione non è più nelle televisioni generaliste via etere. Basterà che Sky alzi un po’ la qualità dei film in abbonamento per mettere fuori gioco la programmazione cinematografica delle sei reti duopoliste. I curiosi guardano sempre più spesso gli show di Jay Leno e di David Letterman su Raisat Extra. Per quale motivo i ceti affluenti, le fasce medio-alte del consumo televisivo dovrebbero continuare ad appassionarsi ai programmi di Costanzo, Ricci, Bonolis, Venier, Panariello? E perché ci si dovrebbe sottomettere a "Quelli che il calcio" quando Sky monopolizza il pallone e la domenica pomeriggio offre "Diretta gol", versione contemporanea di "Tutto il calcio minuto per minuto"? Anche sul piano politico sono delusioni. I telegiornali "di regime" risultano sempre meno efficaci nel plasmare il giudizio dei cittadini. Con tutti gli sforzi possibili nell’esercizio del troncare e sopire, la guerra va effettivamente male, Giulio Tremonti è stato effettivamente silurato, i ceti impoveriti si sono effettivamente impoveriti, Rocco Buttiglione è stato effettivamente preso a pomodorate dal Parlamento europeo e la legge finanziaria è effettivamente, decodificando le definizioni economiche della coppia pragmatica Letta-Bersani, un cesso; infine, come direbbe il ministro Tremaglia, i culattoni sono effettivamente culattoni. Dato questo panorama deprimente, anche i tg diventano meno strategici. Se l’avvenire è nel satellite, nel digitale, nella telefonia mobile, nella banda larga, nei box multimediali che trasformeranno il televisore nello schermo delle meraviglie, la persuasione politica dovrà percorrere strade diverse. Il futuro è una audience che si disintegra e schizza in una galassia di particelle in fuga. L’asset principale consisterà non tanto nel controllo dei contenuti, quanto nel possesso degli strumenti. Berlusconi deve avere intuito tutto questo, e quindi diventano realistici i boatos che ipotizzano la vendita di Mediaset e il progetto di entrare con tutto il peso dell’impero di famiglia in una utility telefonica e multimediale. Solo che a questo punto, di fronte alla rivoluzione possibile, anche tutti i progetti di privatizzazione parziale della Rai, nel tentativo di staccarla dalla politica, rischiano di essere obsoleti prima di venire attuati. L’emittente pubblica è un carrozzone, e le norme spartitorie previste dalla legge Gasparri per la nomina del cda sono un rompicapo su cui si romperanno la testa i responsabili dei partiti. Loro, poveretti, a scornarsi per risolvere il puzzle politico della presidenza e del consiglio d’amministrazione, nel gioco dei quattro cantoni della maggioranza e dell’opposizione; e il diabolico Berlusconi proiettato nel mondo della comunicazione pura a cavallo di un supertelefonino, senza le vecchie antenne, un po’ più libero dal conflitto d’interessi, che fa ciao ciao con la manina, felice al pensiero di intascare i soldini pregiati dei consumi ipermoderni dei suoi vecchi sudditi italiani.

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