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Senza di me il diluvio

07/10/2004

Attenti alla maledizione di Prodankamon. Preparate esorcismi, scongiuri, riti scaramantici. Ricordatevi la catastrofe spaventosa della caduta di Romano, nel nefasto mese egizio denominato Ottobre nero, quando bastò smuovere un mattone per far crollare la piramide del governo ulivista, anno 1998, voto di fiducia alla Camera, 313 a 312. Ridono a denti stretti, dentro l’entourage prodiano, si scambiano il "gimme five" a ogni battuta cinica o sadomaso sul destino del Professore, e sulla maledizione relativa. Romano ha posto l’ultimatum, e loro sghignazzano: d’accordo, fate un altro complottino, un’altra congiuretta, un’altra cospirazioncina proprio come sei anni fa; chiamate il gran sacerdote Francesco Cossiga, suonate la squilla centrista e democristiana, preparate trame scudocrociate. E divertitevi, mi raccomando, ridacchiano a mezza bocca, divertitevi tanto, auguri, augurissimi. Ottobre ritorna, e il grande Prodankamon scolpisce negli annali con aria cupa che «non gliel’ha ordinato il dottore di fare il candidato». Le elezioni europee sono alle spalle, dimenticate. Il 31,1 per cento conseguito dal Listone, finito nell’oblio. Il "miracolo" della Lista unitaria, così definito da Arturo Parisi, rappresentato da un terzo di elettori italiani che erano andarti a cercarsi con il lanternino il simbolo Uniti nell’Ulivo sulla scheda, sembra trasformato in un prodigio a rovescio. E il bello è che nessuno ha capito perché e percome il centro-sinistra è riuscito a ficcarsi in un enigma come quello attuale. «Qui rischiamo di consegnare Berlusconi all’eternità», commentano con lo sguardo al cielo i fedelissimi, «soprattutto adesso che fa la parte del buon doroteo». Ma non basta: bisognerebbe spiegare anche alcuni capolavori politici come l’astensione sul primo articolo della riforma costituzionale. Ma come, quattro burloni stilano una bozza in una baita a Lorenzago, vengono giù dalla valle e dicono questa è la Costituzione, prendere o lasciare, e il Listone non trova di meglio che astenersi sul Senato federale? «Un errore dettato più dall’insipienza che da altre ragioni», commenta Giulio Santagata maciullando il mezzo toscano: «Non c’è stato bisogno di molte parole per spiegare la situazione a Romano e fargli liquidare qualsiasi sospetto di inciucio». Opposizione senza quartiere allo stravolgimento della Costituzione. Tuttavia che la situazione sia ai limiti del grottesco è fuori di dubbio. «Siamo stati quattro anni ad aspettare il ritorno di Romano da Bruxelles, torna, non torna, e appena è tornato ecco fatta la frittata», commenta Enrico Letta con aria perplessa. Per non dire della formidabile idea di andare alle regionali con liste divise, con una dismissione immediata della Lista unitaria. Eppure per qualcuno Prodi ha tirato troppo la corda. Prima il lancio della Lista unitaria, poi le primarie, quindi la lite con Rutelli «bello guaglione», infine la lunga lettera a "la Repubblica" con cui specificava lo schema "si fa come dico io perché non me l’ha ordinato il medico di fare come pare a voi". Per la verità, spiegare le ragioni del colossale autogol di fine estate dell’Ulivo è un’impresa improba. Il cattivo scelto all’unanimità dai prodiani, «l’uomo che amiamo odiare», Francesco Rutelli, non sembra avere le forze per un ribaltone nella leadership. Al massimo si critica una visione diversa dell’evoluzione dell’Ulivo, fondata sul mantenimento dei partiti e su un ruolo competitivo della Margherita nei confronti dei Ds. Le malizie diffuse nel "partito del Professore" arrivano poi a segnalare che Rutelli appare fin troppo soddisfatto della sua situazione personale e del partito: «Sta seduto su 35 miliardi di finanziamento pubblico», si gode una sede faraonica, un ufficio stampa potentissimo, oltre cento dipendenti della Margherita, e mettiamoci il quotidiano "Europa" con i suoi fedelissimi. Il che fa pensare che Rutelli abbia buone e legittime ragioni per resistere alla dissoluzione del partito nella federazione; ma questo non sembra bastare per attribuirgli volontà politicamente suicide o peggio, salti di corsia o di campo. E allora? Il primo punto da tenere presente, apparentemente indiscutibile, è che nonostante ogni invenzione pubblicitaria, malgrado le «ombre mediatiche» indicate da Parisi, i concorrenti eventuali di Prodi alla leadership sostanzialmente non esistono. Nell’entourage di Romano si guardano i sondaggi e ci si stringe le spalle: «Il concorrente più forte ha un distacco di 30 punti. Se vogliamo discutere, cominciamo da qui». Ma potrebbe esserci una questione generazionale. Il Professore è invecchiato, anche se l’allenamento studiato dal professor Conconi fa miracoli. Sui giornali di destra gli incisi su di lui sono sempre ispirati da una civetteria maligna: «Prodi, a un passo dai settant’anni», e così via. «Che c’entra, Berlusconi ha tre anni di più», ribatte come un sol uomo la squadra prodiana. Eppure Letta il giovane sostiene che alla Festa nazionale dell’Unità di Genova, durante l’intervista condotta dal direttore de "la Repubblica" Ezio Mauro, il momento più applaudito è risultato quando Prodi ha dichiarato: «Faccio questo giro da premier, se gli italiani lo vorranno, e poi il mio servizio al paese in questo ruolo è finito». Sottinteso: quelli della nuova generazione facciano il favore di aspettare il 2011, poi non sbarrerò la strada a nessuno. Il popolarissimo Walter Veltroni, che si staglia sulla Roma delle notti bianche, e tutti gli altri, compresi Fassino e Rutelli, stiano tranquilli. Eppure tutto questo non basta. Non è sufficiente a spiegare l’autunno dell’Ulivo. E allora per capire la crisi occorrono ipotesi più radicali. Il fatto è che il centro-sinistra non esisterebbe se non ci fossero state due persone. Berlusconi e Prodi. Il Cavaliere ha suscitato l’insurrezione etico-culturale di una parte dei moderati, dei centristi, degli ex democristiani, contro il "partito di plastica". E il Professore, buttato in scena da Nino Andreatta, è apparso il 2 febbraio 1995 nelle sale bolognesi di Nomisma, per pronunciare quel triplice sussurro «serenità, serenità, serenità», con cui avrebbe offerto una casa comune a tutti gli antiberlusconiani d’Italia. Prima il centro-sinistra non c’era. C’era la gioiosa macchina da guerra, battuta dalla potenza mediatica di Berlusconi e dalla propria non credibilità come soggetto di governo, e il pattuglione percosso e disanimato del Patto per l’Italia di Segni e Martinazzoli. Prodi ha inventato l’Ulivo, ma creare empiricamente il centro-sinistra è una fatica immensa. Aveva avuto sostenitori ambigui, come l’avvocato Agnelli, che aveva accolto con un sorriso i vincitori del 1996 nella convinzione che potessero fare riforme impopolari senza il rischio di ritrovarsi la gente in piazza. E oppositori durissimi come il cardinale Camillo Ruini, presidente della Cei, convinto che il volto di Prodi fosse la maschera moderata dei comunisti. Nonostante giuramenti assortiti sull’eternità del formato bipolare attuale, dice Giulio Santagata, «nella scena politica o dietro le quinte c’è una folla di eretici, frati piagnoni, frati questuanti, predicatori, ex democristiani, cossighisti, che flirtano con l’idea della ricostituzione del Soggetto centrista, la Cdu italiana, il "partito tedesco"». Lo schema è noto: se Berlusconi è transitorio, la Dc è eterna. Si troverà una via d’uscita al Cavaliere, e i tasselli del puzzle andranno a posto. Follini, Tabacci e i due Letta staranno insieme nello stesso partito. «Anche Romano», sogghigna Cossiga. Perché il tentativo di Arturo Parisi è stato effettivamente eroico, tentare di stemperare la pregiudiziale anticomunista annegando i comunisti nel brodo di Ulivo. Ma un processo del genere avviene sui tempi lunghi o lunghissimi. Mentre adesso siamo all’alternativa secca: Prodi o non Prodi. Le sottigliezze analitiche in questo momento non aiutano. Per questo Prodankamon ha tirato la corda fin quasi a spezzarla. Sa bene che nell’elettorato e nell’opinione pubblica la contaminazione di culture e sensibilità è avvenuta da tempo. Alcuni uomini di partito l’hanno compreso, come Massimo D’Alema, che ha fatto la campagna elettorale delle Europee come un leader autentico del centro-sinistra, contaminando gli elettorati, cercando un contatto con settori politici diversi dall’ambiente naturale diessino. «Questo dimostra che fra la gente l’Ulivo esiste», dice Prodi: «I problemi sono nelle stanze dei partiti». Oltretutto, per il Professore c’è una specie di ironia della storia e della politica: nel 1996 il "golpino" contro di lui fu realizzato nell’impunità più assoluta, dal momento che Prodi non aveva alle spalle un partito capace all’occorrenza di vendicarlo. Adesso si assiste al paradosso della Margherita, nata con il contributo decisivo dei prodiani, e che sembra diventata il partito-freno del progetto ulivista. «Siamo sì e no il 20 per cento del partito», ammette Santagata. Ma non è solo una questione di percentuali, sottolineano i supporter di Prodi. La figura del Professore era ed è essenziale per una quantità di ragioni. Perché mette in contatto il mondo dell’economia con il mondo del lavoro. La realtà cattolica con i laici, con i socialisti, con i postcomunisti. Il riformismo non socialista con l’oltranzismo di Fausto Bertinotti, indotto finalmente a una prospettiva di governo del paese. Se Prodi si convince che l’esperienza si è consumata, tutto questo finisce. Chi altri può esercitare questo ruolo di mediazione? Se Prodi se ne va, si mugugna nello staff, finisce il centro-sinistra. Dopo di che? «Dopo di che, la maledizione di Prodankamon continuerà a colpire, e c’è gente che nei prossimi vent’anni di opposizione rimpiangerà amaramente ciò che ha fatto».

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