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Galli cita Berselli su “La Padania” del 20/8/2014

nordQuello che non riescono a capire della QUESTIONE SETTENTRIONALE

La Questione del Nord è un problema politico che si fonda su tre elementi. An¬zitutto sulle virtù civiche di quelle comunità volontarie territoriali della valle del Po, che hanno vissuto i fasti dell’età comunale. Virtù che hanno generato un vero e proprio capitale sociale, in termini di modelli culturali e comporta¬mentali, di mentalità col¬lettiva, di senso di lealtà nei confronti delle istitu-zioni e delle comunità, di spirito imprenditoriale e di senso del rischio Individua¬le, di spirito abnegazione e di dedizione al lavoro. Questo capitale sociale – secondo elemento – ha con¬sentito al grande Nord di conquistare un oggettivo primato dal punto di vista economico e produttivo a livello europeo. Proprio per ciò – terzo elemento – il Nord è sempre stato og¬getto di una sistematica vessazione fiscale non di rado sconfinata in vera schiavitù, significativo ele¬mento di identità politica. Cosa bisogna oggi inten¬dere per Nord? I dati par¬lano chiaro. Nella partita dei trasferimenti con lo Stato centrale, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte ci rimettono circa 100 miliardi di euro all’anno. A tanto ammonta il residuo fiscale di queste regioni, che rappresenta¬no il Nord virtuoso, garan¬tiscono circa la metà del Pil del Paese e vantano rap-porto positivo tra la ca-pacità produttiva territoria¬le e la spesa pubblica re¬gionale. Tutte le altre ap-partengono alla categoria dei parassiti e delle san¬guisughe, che esigono ri¬sorse dallo Stato. Questi ragionamenti bastano per confutare alla radice ¡’intervento del so¬ciologo Ilvo Diamanti su La Repubblica di qualche giorno fa, che dimostra di non conoscere affatto la gene¬si e lo sviluppo della Que¬stione del Nord nell’età della Repubblica. Intendia-moci, è in buona compa¬gnia. Sono molti, infatti, tra politologi, sociologi, economisti, analisti e opinionisti, quelli che com¬piono almeno tre errori in-terpretativi inaccettabili. Primo. La chiamano Que¬stione settentrionale in modo improprio e strumen¬tale, per contrapporla a quella meridionale e così depotenziarla dal punto di vista politico, visto che la seconda esiste da oltre un secolo e mezzo. E non è mai stata risolta, malgrado gli interventi assistenziali dello Stato; interventi che – per la verità – hanno contribuito solo ad alimen¬tarla e a garantirne la per-sistenza nel ciclo storico della lunga durata, dall’Unità sino ai nostri giorni.
Questi studiosi associano poi – secondo errore – la presenza della Questione del Nord, all’andamento elettorale di un asse par¬titico, il forzaleghismo (per usare una categoria inter¬pretativa coniata da Ed¬mondo Berselli). Se il forzaleghismo va bene alle urne, la Questione del Nord esiste; se va male vuol dire che non esiste ed è stata risolta. E questo approccio analitico è inac¬cettabile perché, semmai, è vero esattamente il contrario: il forzaleghismo vie¬ne elettoralmente premiato in base alla propria capacità di intercettare, In-terpretare e rappresentare le istanze generalizzate e diffuse del grande Nord.

Terzo errore; ritenere che la Questione del Nord ab¬bia origine nel tornante fra la fine della Prima repubblica e l’inizio della Seconda. Nella realtà è un’aporia originaria della storia della Repubblica, una delle contraddizioni di fondo di questo Stato. E si configura come una per¬sistenza costante, che emerge ciclicamente. Nel 1945, sulle pagine del “Cisalpino”, si osservava -auspicando la nascita di un grande Cantone del Nord, nel quadro di un ordinamento federale come la valle del Po fosse considerata dallo Stato centrale una “monumen-tale vacca da mungere”. Si deve poi ricordare il dibat¬tito degli anni Settanta, in concomitanza con la prima legislatura regionale. E il dibattito dei primi anni Novanta, con gli studi della Fondazione Agnelli, del Censis e del Cnel. In quel momento la Questione del Nord venne a galla per l’in-trecciarsi di una folla di elementi: la crisi delle ideologie e il crollo di un sistema che pareva immutabile e che è imploso su se stesso, alimentando lo sviluppo di una cultura an¬tistato, antipolitica e an-tipartitica. Era il malessere e il risentimento del grande Nord nei confronti dello Stato di Roma. Questi elementi – cioè una cultura antistato, antipoli¬tica e antipartitica – per-mangono ai giorni nostri anche per effetto di una pressione fiscale reale davvero insostenibile, oltre il 50 per cento, fina¬lizzata a sostenere le strut¬ture burocratiche elefan-tiache e gli apparati am-ministrativi pachidermici di uno Stato ingordo e pre-datore, un’idrovora che non sa contenere il pe-rimetro della spesa pub-blica. Altro che identità smarrita, il grande Nord sta morendo di fiscalità. Che poi il consenso, alle ultime elezioni, si sia orientato in altre direzioni, questo è un altro problema e riguarda i flussi elettorali transitori, a causa di una leadership appannata nel centrodestra e del timore dell’affermazione di un qualunquismo senza progetto, quale il grillismo. Ma lo zoccolo duro rimane, è compatto e coeso. Non è più tempo di au¬tonomie territoriali e fede-ralismo? È finito il primato della dimensione territoriale? Il grande Nord si è smarrito nell’età della globalizzazione? Tutti gli analisti più seri segnalano esattamente il contrario, cioè che gli Stati sono in¬capaci di fronteggiare le sfide della globalizzazione e i territori – ai quali deve essere garantito un ampio margine di autonomia per giocare la propria partita sul terreno dell’economia internazionale – rappre-sentano una risorsa. La stessa persistenza della Questione del Nord – che ha raggiunto delle dimensioni, in base agli indica¬tori privilegiati come il re¬siduo fiscale assai mag¬giori rispetto ai primi anni Novanta – lo conferma. È un elemento di identità po-litica forte che si contrap¬pone allo spaesamento ali¬mentato dall’età della globalizzazione. L’istanza di maggiore autonomia – in¬tesa come non-dipenden¬za dallo Stato centrale -politica e fiscale del Veneto e della Lombardia è sotto gli occhi di tutti.

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