Melevisione addio. E quindi tanto vale approfittare di questa perdita per ragionare sul ruolo della tv «per ragazzi». Anche se oggi è difficile distinguere fra un pubblico di giovanissimie uno di adulti, fra un mondoe l’ altro, fra una psicologia cresciuta e un universo ancora infantile. Quando la televisione era povera, democristiana e moralista offriva un servizio dedicato con chiarezza alla propria clientela: nessuno allora parlava di audience o di share, al massimo si studiava l’ "indice di gradimento", sulla base delle accurate interviste realizzate da solerti signorine sul territorio: ma il marketing è il marketing, in qualsiasi epoca. Nei primi tempi della Rai, la Tv dei ragazzi non era una parte residuale nel palinsesto dell’ unico canale pubblico. Anzi, la tv nazionale si caratterizzava p e r u n ‘ o f f e r t a molteplice rivolta a settori specifici di spettatori: al pubblico generalista con gli sceneggiati come Una tragedia americana, all’ Italia premoderna con il programma pedagogico Non è mai troppo tardi del maestro Manzi, e ai giovani o giovanissimi con lo spazio intitolato La tv dei ragazzi. Ma forse sarebbe sbagliato considerare la Tv dei ragazzi semplicemente uno "spazio". La televisione-contenitore non era ancora stata inventata. Era invece un vero e proprio appuntamento quotidiano. Qualcosa che interrompeva lo studio e talvolta radunava gruppi di amici. I pomeriggi si qualificavano nell’ immaginario infantile (e non soltanto infantile) di massa per telefilm come Avventure in elicottero, o per le serie di Rintintin e di Lassie. Tuttavia il programma che ha creato una vera fedeltà nei giovani spettatori degli anni Cinquanta e Sessanta è stato Chissà chi lo sa?, un’ altra trasmissione "scolastica", che tuttavia determinava fenomeni di identificazione nel pubblico, e tifoserie divise fra le squadre nell’ arena. «Squillino le trombe, entrino le squadre», proclamava Febo Conti, ed era subito competition. Forse il segreto della Tv dei ragazzi era la combinazione, potremmo dire con il lessico di oggi, di fiction e di programmi in diretta. Intere generazioni sono cresciute aspettando la puntata settimanale della saga di Ivanhoe, interpretata da un giovane e atletico Roger Moore; mentre la domenica era monopolizzata da Giovanna, la nonna del Corsaro nero, uno sceneggiato musicale vagamente salgariano, scritto da Vittorio Metz e interpretato fra gli altri da Giulio Marchetti e Pietro De Vico, di cui furono realizzate tre serie a partire dal 1961 (per inavvertenza, tutte le puntate furono cancellate, e quindi non esiste traccia di questa serie di eccezionale successo popolare). La Nonna era interpretata da Anna Campori, la sigla è ancora nella memoria di molti: «Un doppio urrah per Nonna Sprint, la vecchia ch’ è più forte di un bicchiere di gin…». Qualcosa si può trovare su YouTube, ma si tratta di pochi frammenti. La Melevisione a sua volta è il risultato di una reinterpretazione del genere fantasy, ma costituisce soprattutto una riserva di senso dentro una televisione fatta di automatismi e di format. Riuscire a portare i giovani telespettatori, un pubblico d’ élite, naturalmente, dentro il «Fantabosco» e la «Piana del re», nella folla dei singolari, fiabeschi personaggi della Melevisione, implica uno sforzo creativo ragguardevole, esercitato con passione per oltre dieci anni (la Melevisione esordisce il 18 gennaio 1999), di cui c’ è da essere grati agli autori e all’ apparato di produzione del programma. Adesso sembra proprio che la Melevisione sia destinata al digitale terrestre. Era un frammento, piccolo, di televisione strappato chissà come alla esondante volgarità della tv generalista e commerciale. RaiTre ha il merito di avere mantenuto questa riserva indiana e di averla proposta per anni a un pubblico di modesta entità numerica ma via via più fidelizzato e consapevole. Sono, o erano, bambini e ragazzini, dai quattro ai quattordici anni, che hanno avuto la forza di sintonizzarsi su un programma in netta controtendenza riapetto ai palinsesti correnti. Non si spiega altrimenti, se non per il successo "intellettuale" del programma, la sua durata e la permanenza pluriennale nel palinsesto della Rai: nessuno fa programmi per beneficenza. E questo spiega anche il successo «commerciale» della Melevisione, il che significa avere individuato una fascia di pubblico e avere offerto un prodotto per essa attraente. Di più: la sola e unica forma di spettacolo offerta al pubblico più giovane, al di là dei cartoni animati. Adesso si celebrano canti di lutto. L’ intero gruppo della Melevisione (una cinquantina di persone) teme l’ oscuramento, e di conseguenza la scomparsa, o un ridimensionamento brutale. È un atteggiamento naturale, ma oltre alle condizioni in cui si troverà lo staff del programma, in linea più generale occorrerà vedere come il giovane pubblico della Melevisione sostituirà il programma nel proprio portafogli di preferenze televisive. Nulla resta vuoto nella televisione; e dunque niente è più facile che il telecomando dei teenager scivoli per inerzia verso Canale 5, e cioè verso Uomini e donne di Maria De Filippi. Quindi si assisterà semplicemente a una «sostituzione di immaginario»: l’ immaginario costituito dai panorami favolistici della Melevisione verrà sostituito dall’ immaginario pop e trash della televisione commerciale, con i suoi tratti iper-realistici. Al posto del folletto Milo Cotogno e di Lupo Lucio, di Re Quercia e della Principessa Odessa, arriveranno nelle case, anche in quelle che ne erano esenti, tronisti e concorrenti pieni di gel. Sarebbe ingenuo affidare a un programma come la Melevisione la trincea di resistenza rispetto ai programmi di autentica tendenza, le trasmissioni che portano a un’ identificazione pressoché totale con i protagonisti dell’ iper-realtà televisiva. Piuttosto, c’ è da pensare che dopo la De Filippi viene necessariamente, per pura grammatica televisiva, Grande Fratello. E quindi lo stordimento televisivo comincia dove finisce la Melevisione. Sembra nulla, un’ ovvietà, ma la televisione è fatta di abitudini, di gesti automatici, di zapping. Non trovare su RaiTre l’ appuntamento con l’ isola felice della Melevisione non è una perdita in sé: è il segno che nella televisione di Stato qualcuno ha abdicato a un ruolo. Non che la tv debba avere per forza un ruolo pedagogico; tuttavia perdere la Melevisione, con la sua leggera fantasy spedita nel regno oscuro del digitale, significa che la televisione pubblica relega se stessa a un ruolo secondario. I ragazzini se ne faranno una ragione, scivolando verso i giochi machos della De Filippi. Ma forse sono i genitori che dovrebbero preoccuparsi: avere in casa un ragazzino felice della sua età, che scherza sull’ Orco Manno e sull’ Orchessa Orchidea, in fondo è piuttosto diverso dal trovarsi di fronte a un emulo di Fabrizio Corona, pronto a scivolare nel mondo stregato di Amici, in uno scenario estetico, e filosofico, fatto di lampade Uva e di tatuaggi.
15/2/2010
R2
Chiude la Melevisione, spariscono dalle reti generaliste i programmi per i ragazzi. Ecco perché trovare alternative al trash è sempre più difficile