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FOOTBALL Quando la domenica l’ Italia sognava

23/05/2006
DIARIO DI REPUBBLICA
Perché si è corrotto lo sport più amato

L’ oggetto è sferico, di cuoio marrone: tutti lo conoscono come "il pallone numero 5". Va trattato con cura, ripulito dal fango, nutrito con il grasso di foca, protetto gelosamente dai vicini vendicativi e dalle guardie comunali, gli efferati custodi di ogni divieto. Per i bambini degli anni Cinquanta, che lo prendono a calci su campetti spelacchiati, è un simbolo, un tesoro, la cosa più preziosa. In quel lungo momento storicamente quasi immobile, nel tempo in bianco e nero della memoria, il pallone e le sue traiettorie rappresentano la sintesi di sentimenti ancora molto semplici, vissuti con una partecipazione essenziale. Mentre si imparano infatti parole meravigliosamente esotiche come tackle, dribbling, offside, si comincia a mettere timidamente piede sulle gradinate dei piccoli stadi di provincia, in una specie di apprendistato tecnico-sentimentale guidato dai padri. Ancora quasi emoziona, il ricordo di quelle domeniche in cui si celebra la festa laica del calcio: i biglietti strappati all’ ingresso, la rete metallica intorno al terreno di gioco, i giocatori schierati al centro del campo per il virile, britannico saluto al pubblico sugli spalti, come avrebbe detto con la sua secca solennità un Nicolò Carosio. Li senti gridare, gli "atleti", anche se il regolamento vieta di chiamare il passaggio. Si sente anche l’ eco sonora del pallone colpito con forza, o la scia lieve di quando è accarezzato dal piede. E il lessico di ognuno di arricchisce di una terminologia affascinante, fatta di colpi di piatto, collo, interno: il tiro di esterno lo effettuano soprattutto i brasiliani, tipi estrosi che si manifestano per la prima volta alla coscienza collettiva nei Mondiali del 1958: visti nella finale contro la Svezia sui rudimentali schermi televisivi di allora, «tre giocolier di cioccolata, nel verde regno del caffè: sono Vavà, Didì, Pelè». Anche il refrain del Quartetto Cetra contribuiva a rendere favoloso l’ ineffabile tocco carioca a quella cosa rotonda, "il cuoio", che il resto del mondo generalmente maltrattava. Sicché davvero il pallone numero 5 era un possibile punto di contatto fra continenti remoti: fra mentalità, tecniche, stili. Ce n’ è voluto per distruggere quell’ incanto. Sono stati necessari scandali, scommesse, squalifiche, bilanci falsi, e infine il colpo mortale della Cupola. Eppure nemmeno la scoperta della mafiosità intrinseca al campionato, neppure i tornei (forse) taroccati riescono a far dimenticare un sentimento di passione pura, magari a cominciare da un’ angosciosa partita con l’ Irlanda del Nord, "immaginata" grazie alla radiocronaca (sarà stata una qualificazione fallita per la Coppa Rimet). Così come niente riesce a far dimenticare splendori e miserie della Nazionale: il naufragio della spedizione cilena nel 1962, in un’ edizione del Mondiale che tuttora ripropone all’ infinito la finta a gamba secca di Garrincha e rivelò al posto dell’ infortunato Pelè la nuova stella nera, il razzente Amarildo. Oppure le catastrofi coreane, a partire da quella di Middlesbrough nel 1966, quindi il fin troppo visto 4-3 sulla Germania, in Messico, quattro anni dopo. E il trionfo contro i tedeschi al Santiago Bernabeu di Madrid, l’ 11 luglio 1982, dopo un avvio di Mundial decisamente mortificante. Ma nella dimensione arbitraria della memoria i successi di squadra, fenomeni collettivi, lasciano sempre il campo all’ immagine dell’ individuo, del fuoriclasse a tu per tu con la "sfera". Perché il ricordo è spesso gratuito, selettivo, tecnicamente fazioso. Si potrebbero lasciare nell’ oblio intere stagioni calcistiche a patto di riportare alla mente il talento capriccioso di Omar Sivori, che una volta scese in campo con la maglia della Nazionale, contro la squadra materasso Israele, con l’ unico chiarissimo scopo di infliggere umilianti tunnel ai derelitti avversari: irridendoli, facendoli cozzare l’ un contro l’ altro come in una comica di Chaplin, mentre la palla veniva sottratta dalla suola arguta, da una originale e petulante finta del sinistro del Cabezon. Questo, in sostanza, hanno provato a fregarci, Moggi e compagnia: la profonda verità – una verità innanzitutto ma non solo balistica – che c’ era e ancora c’ è nella violenza impressionante del tiro a volo di Gigi Riva; nel tocco talentuoso di Gianni Rivera, l’ abatino che «quando tocca la palla, a San Siro fioriscono anche gli ombrelli». Più tardi, nel dribbling di Robi Baggio, una danza nel karma, alla ricerca di vite e palleggi precedenti. Perché di fronte al pallone, che nel frattempo è diventato a esagoni, a spicchi zebrati, e infine multicolore e "glam", e magari confezionato da piccoli schiavi, non contano nulla gli infingimenti, le astuzie diplomatiche, la politica. C’ è, tanto per esemplificare, la verità inoppugnabile del lancio "da 40 metri" in cui è specializzato Luisito Suarez. Per tutta l’ eternità il regista spagnolo eseguirà lanci infallibilmente di quella misura, una specie di esatta poesia materiale in quattro decametri. Così come il pallidissimo "Pablito" Rossi, genio opportunista, infilerà per tre volte il "magno Brasile" (come lo chiamava Gianni Brera) in ogni replay storico, uccellando la zona classica ma distratta dei brasiliani, e ogni volta punendo con la pesantezza dei gol la sufficienza dei loro difensori. E a proposito di replay nessuno dubita che anche Diego Armando Maradona sarà costretto a furor di popolo, e per sempre, a replicare il suo gol contro l’ Inghilterra (Messico, anno 1986), sessanta metri corsi in dodici secondi, con sei albionici stecchiti in dribbling e il tiro finale che è una linea tracciata con melodrammatica forza del destino nella geometria dell’ assoluto. L’ uomo davanti al pallone riesce a inventare configurazioni classiche, codificate da intere generazioni che le hanno perfezionate. Il "doppio passo" attribuito honoris causa all’ ala bolognese Amedeo Biavati, sorta di gesto barocco che d’ un tratto recupera una sua linearità fulminea. La "foglia morta" di Mariolino Corso, cioè il calcio piazzato tirato con una parabola mollemente perfida. E poi la "rabona" di Maradona, intreccio di gambe per fare di sinistro il cross che il manuale del calcio pretenderebbe di destro. La "ruleta" di Zinedine Zidane, un giro di valzer frenetico, alla Nureyev, con gli avversari che assistono alla sparizione e alla ridislocazione della palla e del danzatore. E così via, fino al "sombrero", pallonetto irridente sopra la testa dell’ avversario, e addirittura al "cucchiaio", esercizio illusionistico perfettamente irresponsabile, con cui Francesco Totti mette a sedere l’ Olanda, ai calci di rigore, dopo una partita drammatica. Nonché all’ ultima meraviglia tecnica, l’ assist che Ronaldinho confeziona mandando la palla in profondità da una parte mentre guarda ostentatamente dall’ altra, per ingannare tutti. Con la scoperta della Cupola, con le prevedibili retrocessioni e gli sconvolgimenti nei campionati, sembra avverarsi infine l’ incubo che aveva avvelenato le giornate di una volta: personificato, l’ incubo, dal vigile urbano che sequestra il pallone o dal vicino sadico che lo buca per dispetto o stupida vendetta. Si sa che, allora come oggi, il pallone sgonfiato è una mezza tragedia, individuale e di gruppo: anche se adesso, vaccinati dalla maturità, sappiamo che la corruttela può distorcere tutto, fuorché sottrarci l’ immagine di qualcuno, Sivori, Maradona, Robi Baggio, alle prese con un pallone; ma allora anche di un bimbetto qualsiasi, in uno spiazzo in periferia, pronto a colpire di collo interno, vedendolo quasi più grande di lui, un pallone numero 5.

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