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Risiko Confindustria

12/02/2004

Lo scandalo Parmalat (Argentina, Cirio, Finmatica e dintorni) è qualcosa di esplosivo non soltanto per la folla anonima dei risparmiatori. Nel film del "mercato che fallisce" per fisiologia economica o illegalità distruttiva, non c’è una comoda distinzione fra buoni e cattivi. Va messa a fuoco piuttosto una fortissima responsabilità dell’establishment economico e istituzionale, chiamato a dare una prova di credibilità. Ciò significa che i vertici delle istituzioni economiche e di controllo sono chiamati a una scommessa pesante, su cui si gioca gran parte del futuro italiano. Finora l’orizzonte si delinea problematico, se è vero che è stato dominato dallo scontro inusitato fra Banca d’Italia e ministero dell’Economia. Il settore bancario deve dimostrare di essere capace di stare sul mercato, facendo dimenticare l’euforia pasticciona con cui gli sportelli hanno indotto i risparmiatori a giocarsi il gruzzolo. I vertici dell’imprenditoria devono dare una dimostrazione di affidabilità, dato che malgrado le rassicurazioni il caso Parmalat getta inevitabilmente una luce sinistra sulla governance societaria all’italiana. In queste condizioni, anche la corsa per la presidenza della Confindustria cambia segno: non è più infatti un gioco di potere, un risiko politicamente stressato e spettacolare come non mai. Può diventare un’ordalia per due candidati il cui profilo non è comparabile, Montezemolo e Tognana, ma i cui sostenitori sono divisi da un’avversione teologica e talora da una propensione entusiastica alla compilazione di dossier. Mentre la posta in gioco, meno plateale ma molto sostanziale, è il ruolo pubblico di un intero ceto che in questi ultimi anni si è autodipinto come avanguardia sociale e politica, e che oggi, di fronte allo sbandamento generale post-Parmalat, deve rifarsi il look: e magari trasmettere l’idea di un’imprenditorialità un po’ meno sbrigativa, un po’ meno saccente, anche un po’ più prudente rispetto al mito della crescita pagata dai soliti altri.

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