Si prenda la sentenza con cui la Corte costituzionale ha rigettato il lodo Schifani, si aggiunga la decisione con cui Carlo Azeglio Ciampi ha rinviato alle Camere la legge Gasparri sul sistema televisivo, e la conclusione è chiara e lineare: con questi due atti svapora il populismo Italian Style. Sono giorni neri per Silvio Berlusconi, reduce dalla lunga vacanza in Sardegna. Non solo per la realtà di fatto, con quei due pilastri della sua politica personale e patrimoniale abbattuti dal Quirinale e dalla Consulta. Ma perché queste due decisioni hanno fatto fuori un metodo, uno stile, un atteggiamento politico. Hanno dimostrato che le istituzioni possiedono una coerenza interna, una logica implicita, che non è deformabile a piacimento. Fanno barriera. E su questa barriera Berlusconi è caduto, vedendosi franare addosso gli architravi della sua politica. La tecnica populista aveva tentato di manipolare in profondità l’assetto istituzionale. Per giustificare la legge Gasparri, occorreva dimostrare al popolo che il pluralismo è qualcosa non di formalistico ma di sostanziale, affidato all’autonomia intatta delle redazioni televisive e alla personalità dei giornalisti, non all’astrattezza punitiva delle regole anti-monopolio. Per questo il ministro delle Comunicazioni aveva potuto proporre una farragine di legge, presentandola come un radicale riordino «di sistema». L’incongruità del dispositivo aveva come retroterra l’idea che la precisione delle norme è un’ubbia para-sovietica. Altro che monopolio dell’informazione: secondo le boutade di Berlusconi l’anomalia era data eventualmente da una corporazione giornalistica «all’85 per cento di sinistra». La libertà di informazione semmai era garantita dalla generosità garantista e masochista del Cavaliere, destinato sempre a soffrire per la malevolenza altrui. Il rinvio deciso da Carlo Azeglio Ciampi, tutto centrato su circostanziate questioni giuridiche, ha fatto piazza pulita di queste dissimulazioni esistenzial-paternalistiche. Sotto il profilo costituzionale, i berlusconiani avevano scritto una legge beffa; il Quirinale ha fatto sul serio. Quanto alla Corte, ha incenerito l’altro caposaldo della politica del patron di Forza Italia, per l’appunto il lodo, mostrando che un conto sono le fondamenta dell’eguaglianza fra i cittadini, e un altro sono le trovate appiccicose per impedire un processo. Basterebbero questi due eventi giuridici, garantiti dalla tenuta delle istituzioni, per sgretolare gran parte dell’impianto populista del berlusconismo. Ovvero ciò che è stato proposto all’opinione pubblica come una verità inoppugnabile: il giacobinismo della magistratura "comunista", con il vincitore delle elezioni sottoposto all’attacco giustizialista e assolto invece per verdetto del popolo dal conflitto d’interessi e dalle imputazioni penali. Il fatto è che si può cercare di modellare l’intelaiatura istituzionale a proprio uso e consumo, ma neppure l’ottimismo berlusconiano poteva pensare che le istituzioni fossero e restassero materia inerte. Anzi, è lo stesso sistema delle garanzie che contiene gli anticorpi alle effrazioni. La legge sulle rogatorie non è riuscita nel suo intento primario, vale a dire a bloccare le rogatorie stesse. La legge Cirami sul legittimo sospetto non è riuscita nell’intento di togliere al tribunale di Milano il processo a Cesare Previti. Tanto che a suo tempo, di fronte a una pronuncia della Cassazione diametralmente opposta alle aspettative previtiane, non mancarono gli attacchi contro una giustizia politicizzata anche ai massimi livelli (per qualche giorno, la Corte di cassazione, prima dipinta come culla del diritto, divenne un covo di nemici della democrazia liberale). Giorni neri, dunque, e clima fosco. In primo luogo perché la doppietta del Quirinale e della Consulta fa precipitare a zero la qualità tecnica della legislazione del centro-destra. Ma subito dopo perché sembra difficile che la Casa delle libertà possa innescare in nome del popolo una polemica distruttiva contro la Corte costituzionale. Certo, erano state durissime le valutazioni formulate dal quotidiano di Giuliano Ferrara il giorno prima della sentenza, quasi a esorcizzare preventivamente un responso negativo. Secondo "il Foglio", la bocciatura del lodo sarebbe stata l’esito nefasto di una Corte «scalfarizzata» (nel senso di Oscar Luigi Scalfaro); in caso di rigetto, «la vera crisi… investirebbe l’autorevolezza e la credibilità dei poteri neutri, del massimo tra di essi», fino a coinvolgere nello smacco anche Ciampi, che il lodo lo aveva firmato. Si vedrà se questa è la linea ufficiale. Ma per aggredire la Corte costituzionale, ancorché "scalfarizzata", e magari per procedere poi a una riforma unilaterale della giustizia ci vorrebbe una coalizione intimamente coesa e solidale. Mentre oggi Berlusconi, reduce dal fiasco del semestre europeo, fronteggia un’alleanza in tensione, con Gianfranco Fini che insiste sulla verifica, l’Udc che vuole il riequilibrio, Bossi che addita il «tradimento» antifederalista di Fini, Maroni che riscopre il baratto come forma moderna di transazione politica subordinando la riforma delle pensioni all’approvazione del federalismo. Sullo sfondo, tensioni sociali, scioperi nei servizi pubblici, inflazione incontrollata, economia stagnante, e il caso Parmalat che fa da spauracchio ai risparmiatori. Senza dire di un ciclo elettorale lunghissimo, a partire dalle europee, capace di ridurre all’inconcludenza anche governi più incisivi del governo Berlusconi. In queste condizioni, tentare un nuovo sfondamento populista sembra un’ipotesi altamente problematica. Simmetricamente, da parte del centro-sinistra non è più tempo neanche di derive "giustizialiste". Berlusconi farà tutti gli ostruzionismi possibili al suo nuovo processo, ma intanto la legislatura cambia fase. Alla fine il Cavaliere sarà obbligato a chiedere agli elettori un giudizio sui risultati del suo governo. Niente più trucchi istituzionali. Niente leggi ad personam vendute per civiltà europea. Pochi sogni e promesse di miracoli. Per il Berlusconi dei giorni neri, dopo quasi tre anni di interessi privati in forma di leggi si avvicina insidiosamente l’ora della politica. E la politica ha ragioni che il populismo non sempre conosce.
22/01/2004