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Un visionario fra le lucciole

27/10/2005

Perché di tanto in tanto la destra riscopre un simbolo della sinistra? E per quale ragione Pier Paolo Pasolini risulta ancora, a trent’anni dalla sua morte disperata ed estrema, un segno di contraddizione? Una delle risposte eventuali, fra le tante possibili, è che il regista, lo scrittore, il polemista, l’uomo pubblico Pasolini era soprattutto e sempre un intellettuale. Ossia un produttore di significati a getto continuo, disposto a fare lavoro culturale a tempo pieno, in ogni momento, su ogni argomento. Anche quando dava un calcio al pallone, simile a un discobolo classico, bellissimo in quel gesto tecnico fermato da un’istantanea. Ed è chiaro che soprattutto nei primi anni Settanta l’intellettuale Pasolini reagiva con la propria intera personalità alle rotture, ai contrasti, alle sfasature provocate dalla modernizzazione italiana. Proprio il gettarsi in ogni discussione, nel realizzare di continuo una testimonianza vivente sui fatti, "sul campo", dava consistenza alla contraddizione pasoliniana. Contraddizione che veniva da un’idea di per sé arcaica della società nazionale, come se esistesse anche allora una ingenuità felice, un sentimento incorrotto della natura, investito dall’industrializzazione e da essa travolto: l’addio alle lucciole era l’epicedio per l’Italia rurale, per la campagna, per il "paese", mentre le periferie si dilatavano in seguito ai programmi urbanistici dell’edilizia popolare, avviati negli anni Cinquanta da Amintore Fanfani, e nel frattempo il centrosinistra "storico" aveva perso le occasioni offerte dal neocapitalismo, ovvero la chance di inserire le masse popolari e operaie in un circuito di consumo evoluto. Nello stesso tempo, Pasolini era progressista in politica, in quanto si sentiva, ed era considerato, "di sinistra". Anche se questo progressismo si alimentava più che altro della denuncia: l’intellettuale "marxista", ma anche l’intellettuale a suo modo cattolico, esponeva la classe politica di governo, il Palazzo, a un processo in cui la sentenza era già redatta. Sfuggiva, all’intellettuale, ciò che Aldo Moro avrebbe rilevato all’epoca dello scandalo Lockheed. La Dc non si farà processare nelle piazze, protestava Moro, e aggiungeva una glossa ineccepibile: i processi, in democrazia, si fanno con il voto. Pasolini invece agita simboli, e i simboli sono ambigui. Quando sta dalla parte del poliziotto, critica il sessantottismo in chiave estetica. Se denuncia l’orrore dei capelli lunghi, e decanta la nuca orgogliosamente glabra del proletario, ha in mente un’iconografia. Se devia rispetto al senso comune quando parla dell’aborto, si riferisce a una sessualità mitologizzata. E il mito, ossia un’immagine eterna, lo investe e lo ossessiona. La sua antropologia è atemporale, svincolata dal suo marxismo. Il mito è Medea, ma anche Canterbury; è il Vangelo di Matteo ma anche la felicità mondana di Boccaccio o della cultura araba; e alla fine la tragedia di senso e del corpo di Salò/Sade trascende la politica per situarsi in un mondo a parte e tragicamente estetizzante. La poesia civile delle "Ceneri di Gramsci" è forse una prova di mimetismo intellettuale non diversa dalle esplorazioni psicoanalitiche e messianiche di "Teorema". E anche la grandezza drammatica della visione pasoliniana consiste probabilmente in un fraintendimento, o in un equivoco: per la semplice ragione che con il mito, la natura, le icone dell’immaginazione, le strutture profonde del freudismo e i paradigmi della linguistica, si coglie forse la perdita di un senso, ma non si riesce a descrivere empiricamente il processo sociale che investe l’Italia dei Sessanta e Settanta. Ricondurre i sintomi della modernizzazione a una struttura eterna è una manovra intellettuale di suggestione formidabile, ma ingestibile politicamente proprio in quanto è il frutto di una visione soggettiva. La potenza visionaria di Pasolini equivale alla sua miopia nell’osservare i fenomeni della realtà effettuale. Proiettare in una dimensione mitica la politica italiana significava anche rinunciare ad agire politicamente. Scrivere lettere luterane, pubblicare scritti corsari, agire dal margine. Ma Pasolini non era Foucault, e pazienza; ma l’imminenza di una rivoluzione impossibile portava a ignorare le riforme di cui l’Italia aveva un tragico bisogno.

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