Se dopo 37 anni Paolo Conte gli ha scritto un’altra canzone, vuol dire che i tempi sono maturi. Maturi per che cosa? Uhè ragazzi, sveglia, ma per il cambiamento d’epoca. Per la svolta. La virata. L’inversione a U. Eh sì, il pezzo del vecchio astigiano, l’avvocato Conte, si intitola "L’Indiano". Secondo le spiegazioni dell’autore dovrebbe essere un ritratto di come Adriano Celentano è veramente, di come parla, di come si muove. L’essenza celentanesca di nuovo distillata dopo l’immortalità di "Azzurro", certificata da innumerevoli gite scolastiche e falò di classi miste sulla spiaggia. Conta niente se l’indiano in questione sarà dell’India asiatica, una specie di Peter Sellers in "Hollywood Party", generatore di disastri, oppure un Cavallo Pazzo americano che sfida le praterie, i cieli e l’Uomo bianco. Il 20 ottobre torna Celentano, il Re degli ignoranti, Geppo il Folle, il teorico dello Yuppi Du, l’interprete del Prisencolinensinainciusol (òl ràit!), quello che disse e scrisse «il paradiso è un cavallo bianco che non suda mai». Adesso il titolo del programma è "Rockpolitik", e dovrebbe trattarsi di una storia degli ultimi cinque decenni attraverso la musica. Ma se Adriano deve svoltare, intanto avrà deciso che la svolta dev’essere rumorosa, strepitante, tremendista, e susciterà un casino pazzesco. Così parlò l’Indiano. Per la verità l’Indiano lo ha sempre fatto, più che dirlo o cantarlo. Ha fatto l’Indiano ogni volta che temeva di restare ingabbiato. Qualcuno dovrebbe ricordarlo, il secondo disco della trilogia firmata da Mogol e Gianni Bella, con una canzone (im)politica costruitagli addosso da Ivano Fossati: «Io sono un uomo libero, né destra né sinistra». Era l’ennesima terza via dell’imperatore Adriano. Primo comandamento, svicolare. Il rock quando c’era il beat. L’ecologia ante litteram quando si costruivano case popolari e il ragazzo della via Gluck era angosciato da «catrame e cemento». Le prediche contro gli scioperi, «chi non lavora non fa l’amore», ai tempi dell’autunno caldo. I tempi in cui Eugenio Scalfari lo infilza, alla fine del suo catastrofico e clamoroso "Fantastico" di fine anni Ottanta: «Celentano evoca l’istinto e l’indistinto», profetizzando che qualcun altro avrebbe raccolto la sua "lezione", come la chiamava un appassionato del trash, Giuliano Ferrara. Il testimone lo impugnò ovviamente Silvio Berlusconi, e subito se ne accorse l’Avvocato, in certe telefonate mattutine, quando le inibizioni non raggiungono ancora il livello convenzionale: «Luca, ma lo sai che Berlusconi mi sembra Celentano?». D’altronde, com’era possibile sfuggire al paragone? Entrambi di modesta statura, fisicamente s’intende, tutt’e due pelati, anche se Adriano non ha fatto il trapianto: carismatici di periferia, machos di quartiere, grandi narratori di storie meneghine fra bulli e pupe, attentissimi ai gusti del pubblico e dell’audience, perché entrambi convinti che «il popolo non sbaglia mai». Ai posteri, o ai poster, o ai cartelloni sei per tre, la sentenza su quale rapporto c’è fra i pantaloni bicolori del Clan e i doppipetti di Caraceni. C’era anzi il rischio che l’estremista paleodemocristiano, l’ex Molleggiato ("ex" perché, nel molleggiarsi, l’ultima volta si schiantò in diretta tv una caviglia) si sentisse oscurato dal successo rockpolitico del suo concittadino Berlusca. L’avrà invidiato, perché il Cavaliere, che anche lui ha di sicuro un cavallo bianco che suda pochissimo, possiede quell’abilità diabolica nel raccontare le barzellette, «a Tigellì, questi nun so’ cristiani, questi so’ democristiani», mentre lui ha quelle sue amnesie, le sue pause, le sue derive di significato, e le sue storie diventano così divagazioni infinite, perdite del filo, smarrimento del senso. Ed è anche possibile che da Berlusconi si sia sentito oscurato: il sospetto è plausibile. Sono quasi coetanei, Celentano ha solo un paio d’anni meno del sessantanovenne capo del governo. Quello lì gli ha rubato la scena, qualche volta anche con le canzoni. Per rifarsi, Adriano si lanciava in dibattiti più grandi di lui, come quello con il fratello grasso Giulianone, sulla donazione degli organi, attirandosi scomuniche dalla comunità dei chirurghi; mentre il Cavaliere cavalcava allegramente la popolarità immensa di chi sa promettere miracoli, e faceva la politica estera, con le pacche sulle spalle a George e a Vladimir, esattamente come l’avrebbe fatta Adriano. Sicché, chissà che gusto sopraffino all’idea di disarcionarlo dal cavallo, bianco o nero non importa. L’Indiano si apposta dietro una collina, o dietro lo skyline di New York che fa da fondale a "Rockpolitik", e aspetta con pazienza da irochese, o da seminole, da sioux, da apache. Al momento buono, mentre spira aria da cambio di regime, il pellerossa convoca una tribù di indiani cattivi: l’anarco-situazionista Carlo Freccero, il benignista Vincenzo Cerami, l’ospite di Alcatraz Jack Folla alias Diego Cugia. Quindi annuncia che nel giro di alcune lune chiamerà tutta la sinistra moderata, estrema, buddista, tantrica ed eccentrica, dal perfidissimo Subcomandante Marcos al disgustoso mangiatore di cacca Daniele Luttazzi e all’infame zapaterista Sabina Guzzanti, con invito esteso al pessimo consigliere comunale diessino Luciano Ligabue. Si sa, lui è un sismografo. Registra i terremoti e si adegua. Adesso i segnali bradisismici dicono che si prepara uno smottamento formidabile da destra a sinistra: l’anima di Celentano gode con un sentimento squisito: una rivoluzione! finalmente! Ha le carte in regola: è sempre stato in un clan di centrodestrasinistra. L’Unione è un nome che poteva stare nel "Mondo in mi settima". Via ai segnali di fumo. E l’uomo libero, né destra né sinistra? Intanto, i filologi osserveranno che Fossati, grande e sofisticato autore, gli ha infilato nella strofa successiva un verso ideologicamente suicida: «Ci sono cantanti a cui non si può credere». Ma non importa: nessuno "crede" in Adriano. Nemmeno lui crede all’Indiano che è in lui. Perché Celentano a tutto può resistere, fuorché alle obiezioni. Perché lui non capisce, percepisce. Lui non sa, sente. Lui non guarda, vede. E se l’Indiano scorge all’orizzonte la fuga della destra, che altro può fare se non salutarli, sgolandosi, «ciao ragazzi, ciao»?
14/10/2005