Quando vedrà i dati del sondaggio che "L’espresso" pubblica in queste pagine, probabilmente Romano Prodi tirerà un piccolo sospiro di sollievo. Già, le primarie sono un’incognita assoluta. Per la politica italiana e per lui personalmente. Senza una forza politica alle spalle, privo di un vero apparato organizzativo proprio, supportato da uno staff volonteroso quanto privo di mezzi, Prodi è ancora reduce dalla brutta avventura, l’autentico "bad day" della lista unitaria, silurata dalla Margherita. Qualche cicatrice è rimasta. Di fronte al "niet" di Francesco Rutelli, il Professore aveva reagito male: «È un suicidio». Poi si era collocato su una linea di onesta resistenza, sostenuto dai suoi fautori e facendo affidamento sulla tenuta dei Ds. Infine, allorché il progetto era stato definitivamente affossato, aveva fatto di necessità virtù: «Un passo alla volta», aveva confidato ai suoi sostenitori: «La lista unitaria era un grande progetto di razionalizzazione del sistema politico, ma non si può continuare a combattere una partita che è già stata giocata». Il che significa: si gioca con le carte che ci sono, senza illusioni, cercando di fare di necessità virtù. Certo, il colpo era stato pesante. Uno degli analisti più attenti, e non sospettabile di antipatia per il centro-sinistra e l’Ulivo, aveva concluso su "la Repubblica" che Prodi era stato ridimensionato da leader effettivo dell’alleanza al ruolo di amministratore di condominio. Una specie di consulente arruolato come mediatore di una coalizione divisa. La scelta di scommettere ancora sulle primarie di coalizione era stata l’ultima chance, rivendicata con il puntiglio di chi ha visto svanire una proposta politica, per chiedere all’Unione una legittimazione della propria figura e del proprio ruolo. Senza nascondersi le difficoltà che avrebbe incontrato nella piccola ma ardua traversata del deserto fino al 16 ottobre, il Professore e il suo nucleo di amici e fautori si erano convinti infatti che a quel punto il voto popolare, dal basso, sarebbe stato l’antidoto al potere che i partiti avevano riconquistato. Almeno fino a quella data fatale, sarebbero passate in secondo piano tutte le diffidenze, le dietrologie, l’idea di possibili macchinazioni per cambiare cavallo (che nel chiacchiericcio politico romano hanno sempre occupato un certo spazio). E la competizione fra i candidati, autentica o rappresentativa, era comunque un modo per sottrarsi alle logiche della lottizzazione partitica (che ad esempio erano emerse sfacciatamente nella spartizione del cda della Rai). Ma ancora adesso nessuno ha ben chiaro quale sarà il risultato reale delle primarie. Si tratterà di vedere innanzitutto se i partiti dell’Unione avranno la capacità organizzativa per determinare un risultato significativo. Portare nei "seggi" un milione di cittadini-elettori potrebbe essere considerato un risultato appena sopra la modestia. Due milioni, una soglia di ottima qualità. Quindi nei prossimi 45 giorni ci vorrà una mobilitazione consistente. E occorrerà anche valutare come si svolgerà il confronto con gli altri candidati in lizza. A osservare i numeri del sondaggio Swg, il primo elemento di rassicurazione è il dato alto ma non stratosferico che ottiene Fausto Bertinotti, un 16 per cento sul totale dei simpatizzanti dell’Unione. «Bertinotti è un termometro importante del confronto nelle primarie», dice lo staff prodiano: questo perché per molti aspetti le "priorità" del capo di Rifondazione comunista rappresentano il lato "duro" dell’alleanza. «Fausto solleva problemi, come la tassazione della rendita. Poi toccherà a Romano trovare una sintesi che metta insieme l’attacco alle posizioni di privilegio con una politica di modernizzazione». L’altro aspetto da valutare è che il giorno delle primarie non voterà il "popolo dell’Unione", ma presumibilmente un segmento particolarmente politicizzato, consapevole della posta in gioco, probabilmente sensibilizzato e orientato dai partiti: e dunque le preferenze dei votanti potrebbero addensarsi in modo netto sul candidato Prodi. Il quale in ogni caso vede con misurato favore l’affollarsi di competitori: di qui alla primavera del 2006 il centro-sinistra dovrà fare uno sforzo importante per tenere alto il grado di coinvolgimento e di interesse degli elettori, in modo da non disperdere il vantaggio accumulato finora sulla Casa delle libertà: dunque la presenza nella campagna dei leader dei partiti minori sembra essere un valore aggiunto, in ogni caso la dimostrazione che le primarie non sono soltanto un esercizio che misura lo stato dei rapporti fra Ds e Margherita. Intanto, a mano a mano che passano i giorni il clima nel centro-sinistra sembra rasserenarsi. Con molti mal di pancia residui, la "questione morale" sollevata da Arturo Parisi è stata sterilizzata. Non senza danni, dal momento che in certe frange diessine aveva fatto breccia la domanda provocatoria lanciata da Emanuele Macaluso sul "Riformista": «A questo punto perché i Ds dovrebbero votare Prodi alle primarie?". La pace è una pace fredda, riscaldata semmai dai dati delle rilevazioni demoscopiche, che continuano a segnalare i quasi dieci punti virtuali di superiorità dell’Unione sulla Cdl. Sono dati matematicamente affidabili? Politicamente credibili? La maggior parte dei sondaggisti, pur facendo ampi gesti di scongiuro statistico, tende a considerare i numeri attuali come il risultato di un assestamento di lungo periodo, quindi difficilmente scalfibile. L’analista Parisi lo dice ormai da tempo: «Considero la possibilità della vittoria della Cdl un risultato residuale». Tuttavia il cammino di Prodi è ancora accidentato. Lo si è visto durante il mese di agosto, quando all’ex commissario europeo Mario Monti è bastato il combinato disposto di una frase in un editoriale sul "Corriere della Sera" e successivamente un’intervista alla "Stampa" per scatenare il dibattito sul fallimento del bipolarismo e la rinascita del Centro come entità capace di interpretare la cultura di mercato. Argomenti su cui Prodi è stato rapidissimo a intervenire, dato che tutta la sua esperienza politica diretta è segnata dalla scelta dello schema bipolare e che i fantasmi centristi sono sempre stati visti da lui come la minaccia più pericolosa per il suo futuro politico. Anche Giulio Santagata, uno degli uomini che gli sono più vicini, lo ha detto con chiarezza: «Qui si confonde il fallimento del bipolarismo con il fallimento della coalizione di centro-destra». E in effetti, a guardare i dati del sondaggio Swg, colpisce il fatto che Silvio Berlusconi, creatore e dominus della Casa delle libertà, appare particolamente basso, demoscopicamente parlando: se soltanto il 25 per cento degli elettori della Cdl si pronunciano a suo favore, nelle "primarie virtuali" del centro-destra, ciò significa che la carriera politica del premier attuale è a un punto di svolta. A margine del suo incontro russo con Vladimir Putin, Berlusconi si è prodotto in uno dei suoi show più plateali, garantendo che la sua ricandidatura alla guida del paese è un sacrificio «enorme, enorme, enorme», e che dunque non si ricandiderà per piacer suo ma per il bene della Cdl e del paese. Ma se anche gli elettori di centro-destra stanno mostrando il pollice verso, ciò vuol dire che il giudizio sull’esperienza politica di Berlusconi è ormai assestato. Non si spiegherebbe altrimenti il risultato ancora molto alto che ottiene nelle preferenze del campione Gianfranco Fini, un 39 per cento che sembra esprimere la radicalità di una valutazione: il vicepremier e ministro degli Esteri è reduce dall’esito catastrofico del referendum sulla fecondazione assistita, dal conflitto micidiale con i capicorrente del suo partito, dal gossip micidiale di piazza di Pietra, dall’etichetta sostanziale di inaffidabilità politica affibbiatogli dai suoi colonnelli, eppure sembra avere sostituito Berlusconi come oggetto simbolico e mediatico del centrodestra. Fini può sbagliare tempi, metodi, scelte, giocarsi il mondo cattolico senza acquistare una caratura laica, eppure agli occhi dell’elettorato della Cdl (ma anche dell’Unione) rappresenta ancora una leadership credibile, almeno finché si resta sul piano dei sondaggi. Dentro il centro-sinistra guardano con attenzione alle sue mosse: «In questo momento non rappresenta un’alternativa. Ma se in coincidenza con le primarie decidesse di dare uno scrollone pesante, ad esempio liquidando la devolution, Fini comincerebbe ad apparire un leader con tratti nuovi, non solo quelli di un postfascista particolarmente eclettico e abile nella dialettica». Nonostante le rassicurazioni e le rivendicazioni di Berlusconi, «basta con queste storie, il candidato sono io», i conti cominceranno a diventare più precisi e urgenti dopo le primarie dell’Unione. Una volta valutata con qualche certezza la posizione di Prodi, l’intero centro-destra comincerà una seduta di autocoscienza politica potenzialmente drammatica. Negli ultimi mesi, fino a qusti giorni, l’Udc ha tenuto una linea di notevole coerenza. Pier Ferdinando Casini ha aperto una fase di esternazioni sul tema della "discontinuità" nel centro-destra, e i dati del sondaggio lo premiano con un discreto 16 per cento come candidato alla leadership; Marco Follini non ha mai ceduto di un passo dalla sua impostazione: alla domanda irritata su "che cosa vuole Follini?", è facile rispondere che il leader dell’Udc vuole esattamente ciò che dice, ossia il varo di una fase politica nuova; la "spina nel fianco" Tabacci insiste a dire tutto il male possibile della suocera, il bipolarismo, perché nuora intenda (cioè Berlusconi si faccia più in là). È chiaro che in queste condizioni complessive sono possibili anche scenari catastrofici (nessuno può escludere a priori ipotesi disastrose come il "melt down" delle due coalizioni). Ma oggi agli occhi dei responsabili del centro-sinistra sembra più probabile un consolidarsi tendenziale dei due poli. L’incubo della fusione degli schieramenti sembra allontanarsi. Alle primarie di ottobre, candidati marginali politicamente come il manager Ivan Scalfarotto e Vittorio Sgarbi sembrano funzionali soprattutto a una spettacolarizzazione del confronto. Il confronto con Bertinotti potrà esplicarsi positivamente soprattutto nell’analisi critica della legge finanziaria. Prodi continua a ripetere che bisogna uscire una volta per tutte dalla sindrome del "facciamoci del male", in cui la sinistra vanta una specializzazione formidabile. Ma, per l’appunto, un sospiro, piccolo piccolo, lo si può tirare.
08/09/2005