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La sposa del ’43

26/05/2005

Talvolta si ha l’impressione che un libro si possa riassumere in una frase. Basta pensarci un momento: «Jolanda compì ventun anni il 14 dicembre 1941, tre giorni dopo che Mussolini, affacciato al solito balcone di Piazza Venezia, aveva annunciato la guerra all’America». Jolanda è la giovane madre di Adele Grisendi, che ha appena pubblicato con Sperling & Kupfer un nuovo libro ancora una volta molto padano, "Baciami piccina" (272 pagine, 15 euro). La storia è quella di due famiglie contadine nel profondo della provincia di Reggio Emilia: «La piccola patria di tutta questa gente era Montecchio, un paese cresciuto sulla sponda reggiana dell’Enza, il torrente che segna il confine a ovest tra le province di Reggio e di Parma…». Ma la suggestione del libro nasce proprio dalla collisione fra le piccole storie famigliari e la grande storia del mondo. Che cosa succede quando il "mondo piccolo", che nella memoria siamo abituati ad associare al presepio emiliano di Giovanni Guareschi, ma che in questo caso è fatto dalla miseria di «sei biolche di terra, quattro vacche da latte e due manze», viene investito dalla furia della guerra, dell’occupazione, della paura? Per capirlo bisogna pensare alla vita in quel modesto paese, alla fatica, alle vicende delle famiglie in quel paio di decenni in cui la storia d’Italia sembra quasi immutabile, comunque sospesa. In cui i mezzadri conducevano la loro vita aspra, i rapporti fra i mariti e le spose, fra gli uomini e le donne erano di una durezza oggi inconcepibile, anche se non di rado temperati da un affetto trattenuto e silenzioso. Si risentono, in questo libro, i sapori, gli odori e i ricordi di "Bellezze in bicicletta", il libro in cui l’autrice aveva raccontato le quattro stagioni della campagna emiliana. Ci sono le serate nella stalla, nel calore umoroso delle mucche di razza "reggiana frumentina", con le donne che chiacchierano e gli uomini che giocano a carte. C’è anche, ed è naturale, quella vita così pesante, quel lavoro talmente duro, a cui allora soggiacevano uomini e donne, che oggi risulta quasi inconcepibile. E anche i rari momenti di riposo e di felicità, la messa la domenica, il fidanzamento, una gita a Bologna a raggiungere lo sposo giovane, lei "sposa del ’43", qualche casto bacio a spasso per via Indipendenza, un gelato sui gradini di San Petronio: «Immancabilmente, dai caffè affacciati sulla piazza li raggiungeva la musica trasmessa da qualche apparecchio radio. Jolanda ascoltava in silenzio, invece il marito fischiettava. A piacergli più di tutti era Alberto Rabagliati, quando cantava "Baciami piccina"». Ciò che rende incantevole il libro di Adele Grisendi è il modo esplicito e insieme pieno di pudore in cui racconta la storia della sua famiglia e di sua madre. Lei lo dichiara nella prima pagina di questo suo lessico famigliare: ripensando ai suoi genitori, si pente di avere ascoltato spesso di?strattamente i loro racconti, e dunque di avere dissipato memoria, smarrito ricordi. Così, non c’è concessione all’elegia, lo stile è sempre trattenuto sulla soglia della commozione perfino quando viene ricordato l’abito da sposa della madre, oppure quando in quella famiglia così "antica" entra, dopo la nascita di una figlia «bella come una mela», una malattia così moderna e disperata come la depressione. Il libro si apre e si chiude con due incontri, in cui durante o dopo la malattia la madre ritrova la figlia. Ma già le prime parole del primo capitolo sembrano dette apposta per raccontare in modo quasi epico, come in una favola ambientata in Emilia, una storia vissuta con una scansione ineluttabile: «Da due giorni e due notti Jolanda parlava ininterrottamente. Senza avvertire la sete, parlava, parlava, parlava». In questa cornice narrativa, avviene una storia italiana raccontata con schiettezza: senza enfasi, senza indulgere al colore, con uno stile semplice. Perché in quel piccolo pezzo di Emilia, in «quell’ultimo centro della pianura che lascia il posto alle prime colline e poi all’Appennino», c’è posto per i ricordi e per la sincerità della memoria, non per la retorica.

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