Fosse stato soltanto un leader della comunicazione, o un talento creativo capace tecnicamente di esaltare le folle, Giovanni Paolo II non sarebbe stato il genio pubblico che è apparso ai popoli di tutti i continenti. Non era una pop star. Non era nemmeno un’icona serializzata alla Andy Warhol e canonizzata dal culto dei papa-boys. Se nel suo caso si fosse trattato solo di una qualità retorica specifica, cioè di una particolare modalità comunicativa, il papa non sarebbe riuscito a scuotere il mondo. Quindi, per capire come Karol Wojtyla sia riuscito ad agitare la storia, occorre sciogliersi dall’idea postmoderna che la voce del pontefice sapesse diffondersi grazie a un tocco carismatico, che gli permetteva di approfittare di ogni strumento e di ogni piega della mediaticità. Non è così, non è stato esclusivamente questo. A mano a mano che i giorni passano, dopo il triduo lunghissimo dell’agonia, mentre le televisioni di tutto il mondo continuano a rimandare le immagini dei suoi viaggi e della sua traiettoria planetaria, bisognerebbe provare a capire che il ruolo di papa Wojtyla tra il finale del Novecento e l’avvio del nuovo millennio è stato innanzitutto una funzione dettata dalla consapevolezza profondissima della propria cultura. La comunicazione viene dopo. È uno strumento. Prima della comunicazione viene la convinzione, la fede, la certezza irriducibile della propria idea. È quella convinzione profonda che lo induce a mobilitare le coscienze dei polacchi, durante il maestoso viaggio nella sua patria "socialista", dal 2 al 10 giugno del 1979, nei giorni in cui l’intero paese comincia a cambiare volto. Il papa polacco, colui che era stato il ragazzo di Wadowice, il poeta e l’operaio, raccoglie folle acclamanti che dopo trent’anni di regime manifestano con l’entusiasmo e la commozione, con il riso e il pianto, una speranza nuova e radicale. Il simbolo più vistoso è la grande croce che campeggia in piazza della Vittoria a Varsavia, il luogo delle truculente celebrazioni comuniste. Ma è lo slogan di Giovanni Paolo II a suggerire a Lech Walesa e a chi è già pronto a insorgere contro il comunismo che il cambiamento è un obbligo morale: «Non abbiate paura». Quelle parole che sono la cifra esclusiva di tutto il suo pontificato, diventano in quel momento «non abbiate paura di cambiare la faccia del mondo». Nelle sue parole di allora c’era evidentemente la sensazione che sarebbe bastato poco, un soffio dello Spirito, a disgregare l’ormai esausto totalitarismo comunista, e che quindi in quel momento, e in quel decennio che avrebbe portato allo sbriciolamento del Muro di Berlino, occorresse prefigurare una visione dell’unità spirituale dell’Europa cristiana: l’Europa delle cattedrali, quell’entità sociale, religiosa e umanistica che si sarebbe manifestata felicemente dieci anni dopo, esemplificata dal bellissimo "Te Deum" di ringraziamento nella cattedrale di Praga, dopo la caduta dei regimi comunisti e l’emancipazione dei popoli dell’Europa centro- orientale. La potenza mediatica, così come il carisma personale, nascono quindi proprio dalla saldezza della propria "memoria" e della propria "identità", i due cardini della sua autobiografia. L’impeto comunicativo di un papa che ha operato nell’era della televisione si è visto nei momenti in cui folle sterminate e colorate si stendevano davanti a lui, masse poverissime reclamavano un suo gesto, e Wojtyla poteva offrire soltanto il suo pastorale, il crocifisso a cui restava avvinto, a cui appoggiava la fronte come per ritrovare forza di fronte alle evidenti iniquità del mondo, e la sua parola antica e nuova. La memoria è la consapevolezza storica che induce a grandi gesti, a chiedere perdono per le ingiustizie e le colpe della Chiesa e per le sofferenze inflitte alle minoranze religiose, a pregare davanti al Muro del pianto, a recarsi nella sinagoga di Roma; così come, sempre in quel primo viaggio da papa in Polonia, a celebrare la messa ad Auschwitz, nel «Golgota del mondo contemporaneo», che lo condurrà a una costante riflessione sulla Shoah. Il dono comunicativo di Giovanni Paolo II era in realtà la forza di una volontà e la certezza della propria antropologia. Una visione dell’uomo che si era già formata prima di ascendere al soglio di Pietro e che per diventare una voce universale aveva bisogno soltanto di un ascolto globale. È ancora in quel viaggio in Polonia, nel discorso epocale rivolto agli operai dei cantieri di Nowa Huta, che prelude alla rivolta civile e politica di Solidarnosc, che Wojtyla parla del lavoro dell’uomo, e di come non possa essere trattato come una variabile o una funzione del processo di produzione economica. Joaquín Navarro-Valls, che gli è stato accanto per più di vent’anni, sostiene che il papa aveva maturato la consapevolezza che il cristianesimo, cioè la tradizione, la memoria, doveva affrontare due sfide culturali ingenti: «Il marxismo, ossia una pratica senza più teoria, e lo strutturalismo, una insidiosa teoria senza pratica». Sotto questa luce, la sintesi di Wojtyla è stata originale. «Quello che apparve dopo il conclave del 1978 sulla scena europea e mondiale», ha detto Navarro-Walls, «era un intellettuale molteplice per cultura: polacco nella poesia e nella storia; tedesco in filosofia, conoscitore di Husserl, Scheler, Heidegger, ma anche attento alla Francia, fino all’esistenzialismo di Sartre». Questa è l’identità: un’identità culturale, un’identità filosofica, un "discorso" continuo sulla persona. Qualcosa che consentì a Giovanni Paolo II di parlare delle «stimmate di morte» contenute nel capitalismo; e nello stesso tempo dei «germi di verità» contenuti addirittura nella concezione marxista. Certo, memoria e identità devono incarnarsi in atti concreti, scendere dal trono pontificale e andare negli stadi e nelle spianate, venire a contatto con la fede dei minatori colombiani o dei campesinos messicani, chiamare a sé gli abitanti delle favelas brasiliane, ma anche ammonire Fidel Castro stringendogli la mano, e trattare i potenti della terra come uomini che sbagliano, richiamandoli ai doveri della pace. Tutto questo ha poco in comune, come sottolineò dopo il primo decennio di pontificato un vaticanista come Domenico Del Rio, con il "Wojtyla Superstar" celebrato dall’America hollywoodiana, e nemmeno con il "Goleador de la Iglesia" entusiasticamente popolare nell’America Latina. Il fascino probabilmente irripetibile di Giovanni Paolo II e la fascinazione totale che ha esercitato sul pubblico mondiale sono una successione impressionante di gesti rituali e di parole tradizionali. Come quelle legate alla recita del rosario, alle preghiere e alle giaculatorie di un cattolicesimo del cuore, che danno voce al potente "Sia lodato Gesù Cristo!" con cui appena eletto si rivolse alla gente di Roma. E accanto a quella tradizionale, una gestualità nuova, un’interpretazione soggettiva e talentuosa della retorica richiesta dalle telecamere nell’era della civiltà elettronica. Elicotteri che si sollevano o atterrano con fenomenali effetti scenici, la terra baciata dopo la discesa da qualsiasi aereo, le mani che si tendono per accarezzare e per essere afferrate, le passeggiate, le discese con gli sci, i tuffi in piscina, i bambini sollevati con la forza del prete maschio e atletico, le parole gridate contro l’ingiustizia o la guerra, i cedimenti deliberati e gioiosi al folklore locale, le liturgie interpretate con doti di grande attore e i protocolli infranti con infallibile senso della scena, le costruzioni scenografiche sapientissime; e ovviamente le immersioni drammatiche nella povertà, nell’Africa dell’Aids e della disperazione o nell’India dei morenti di madre Teresa di Calcutta: per esclamare «Cristo stesso diventi africano!», offrendo all’infelicità e alla povertà estreme un cenno di speranza. Tutto questo è stato Karol Wojtyla. Per qualcuno, un’interpretazione geniale del medioevo più la televisione. In modo forse più appropriato, un genio antico, moderno, postmoderno che ha voluto pregare per gli uomini e con gli uomini, in mondovisione.
14/04/2005