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La fiction è finita

14/04/2005

In un paese che sembrava lievitare nel mondo dei sogni, il 3 e 4 aprile è venuto giù il fondale, il palco e il sipario dell’operetta. La fiction è finita. L’"irreality show" (definizione di Ilvo Diamanti) ha chiuso bottega, e i partecipanti si guardano intorno smarriti, incolleriti, comunque attoniti come dopo l’arrivo di una grandinata fuori stagione. Sembra che nell’anno di grazia 2005, prendendo a volo l’occasione delle elezioni regionali, la società italiana abbia deciso di comunicare, alle autorità competenti della Casa delle libertà, che dopo avere a lungo creduto al sogno, al presidente operaio, al "meno tasse per tutti", al contratto, alla stilografica, al cerone, al riformismo avventuroso e al miracolismo berlusconiano, era l’ora di tornare alla realtà, cioè alla sostanza vera e irriducibile delle cose. Prima c’era quell’Italia che ammirava la spregiudicatezza mediatica e l’immagine esteriore di Silvio Berlusconi: il lifting "leggero", la bandana, il trapianto così riuscito, «faccio tutto quello che facevo a trent’anni, è concessa anche l’interpretazione maliziosa», e giù risate complici. Adesso la realtà riprende il sopravvento. Altro che populismo elettronico, altro che look, altro che delirio di superficie e di apparenza ideologica. Siamo alla dura realtà fenomenica. Alle cose. Alle azioni politiche. Ai fatti. Alla fatica. Non è chiaro dove e quando sia avvenuta la mutazione climatica. Probabili le ragioni economiche, in primo luogo. Tuttavia ci sono almeno due aspetti immateriali da mettere in luce, perché fanno da sintomo di un cambiamento profondo. Il primo indizio è il risultato di Alessandra Mussolini, che nonostante un’esposizione pubblica fuori misura, con tutto il suo populismo trash ha incassato percentuali che la fissano all’irrilevanza. Non può nemmeno dire di avere determinato la sconfitta di Francesco Storace. Il che significa che la visibilità televisiva e le polemiche tipo «ma tu lo sai quanto costano i pannolini?», o «ahò Vespa, quanto ci costi, eh, quanto ci costi, Vespa?», non si trasformano necessariamente in consenso politico, e questo ha il sapore di un rassicurante ritorno alla razionalità. La seconda sorpresa è stata la sostanziale smentita della tesi sulla disattenzione dell’elettorato in seguito alla saturazione dell’informazione per l’agonia e la morte di papa Wojtyla. Benché le televisioni e i giornali siano stati inflazionati dall’effetto-papa, non c’è stata nessuna diserzione dalle urne. «Un sintomo di salute della nostra democrazia, qualcosa di rassicurante per chi ce l’ha a cuore», ha detto Arturo Parisi nella notte del grande terremoto elettorale. Ciò sembra dire che il risultato delle elezioni regionali, quello stellare 11 a 2 che ha lasciato alla Casa delle libertà soltanto il Lombardo-Veneto, covava da tempo come un fuoco sotto la cenere (o forse come una ruggine sotto la vernice berlusconiana). Fine del sogno. Bentornati fra noi, nella realtà aspra e difficile dell’Italia contemporanea. Oh, intendiamoci, il bagno di realtà è anche un monito secco al centrosinistra: perché si dovrebbe capire che i voti ottenuti, e il sorpasso arrembante sulla Cdl, dissolvono anche tutte le dicerie, le leggende, le mitologie, i pettegolezzi sull’Unione e la sua leadership. La folla dei candidati alternativi al "bollito" Romano Prodi, capeggiata secondo i soliti mondani da Walter Veltroni, da Francesco Rutelli o da chiunque altro, arretra come una folla di vampiri davanti a una fiaccola che anticipa il chiarore dell’alba. Il rientro nel soleggiato mondo diurno fa anche capire che tutte le chiacchiere sulla fisionomia e l’anima del centrosinistra appartengono a un’altra epoca, e probabilmente appartiene al passato anche lo strumento delle primarie, che Prodi ha agitato a lungo per chiarire le posizioni interne e per sconfiggere le ombre mediatiche che a loro volta venivano agitate o si agitavano contro di lui. Dovrebbero tornare alla realtà anche tutti coloro, numerosi soprattutto nell’establishment economico, che hanno sempre mantenuto un’equidistanza altezzosa rispetto allo schema bipolare. È il bipolarismo, darling. Uno schema politico che implica ragionamenti semplici fino alla semplificazione. La Cdl non funziona? E allora si prova l’Unione, non si va alla ricerca di una partita "terzista" o neocentrista giocata con carte immaginarie. Se dopo quattro anni di governo del centrodestra si continua a chiedere, come ha fatto e continua a fare Luca Cordero di Montezemolo, di «mettere finalmente l’industria al centro dell’agenda», vuol dire che finora Berlusconi si è fatto gli affaracci suoi, ha sistemato quasi tutte le pendenze giudiziarie, ha legificato a suo uso e consumo con la legge Gasparri, ma dell’economia reale si è disinteressato largamente. Sarà il caso anche di chiedersi come mai Berlusconi non abbia intuito, o abbia intuito solo in parte, il rovescio che stava per capitargli. Perché abbia tentato, con sempre maggiore fiacchezza, la carta dell’anticomunismo, l’ombra di «terrore, miseria, morte» se vince il Male, con il risultato che in Puglia un comunista gay fa fuori il clone berlusconcino. È vero che alla fine, da Bruno Vespa, aveva quasi ammesso che per la Cdl la prova regionale sarebbe stata difficile, «perché l’economia non va bene». Ma evidentemente anche il premier era prigioniero di Mirabilandia, del mondo fantastico e pieno di balocchi illustrato ogni sera dalle soap opera dei tg di regime. Ottenebrato dalla propria costruzione comunicativa. Incapace di rilevare le sacche di rancore che si sono create in questi anni nel corpo della nostra società, con le rivolte dei pendolari, l’impoverimento del lavoro dipendente, l’insofferenza dei ceti depredati dopo essersi rivolti fiduciosamente a Lui per avere qualche briciola del banchetto. Perché se si accetta la logica di Berlusconi, la sconfitta alle regionali è inconcepibile. Come può maturare una batosta del genere mentre antenne e satelliti dipingono l’Italia come il paese del sogno e la caduta dei consumi viene attribuita al fatto che gli italiani si sono messi a dieta? Com’è possibile che la realtà possa permettersi di smentire l’immaginazione, quando la fantasia fiorisce in un giardino mediatico tenuto sotto ferreo controllo proprietario o politico? Un piccolo ma significativo segnale, a volerlo cogliere, era stato anche il fiasco della manifestazione fiorentina organizzata da Maurizio Scelli, con i presunti giovani del nuovo movimento artificiale Italia di nuovo. Altro segnale di sfasatura, la surreale serata di Berlusconi da Bruno Vespa, il giovedì prima delle elezioni, con le scritte in sopvraimpressione che segnalavano "la trasmissione è registrata": sicché mentre su tutti i teleschermi del mondo cominciava l’agonia del papa, Berlusconi raccontava barzellette, veniva mostrato proprio a Firenze da Scelli mentre parlava sul palco con un trentenne corpulento e calvo, a cui celentaneggiando dava consigli tricologici, alludendo alla buona riuscita del proprio trapianto. Per ora Berlusconi incolpa gli alleati, il "subgoverno", i politicanti Fini e Follini, rifugiandosi nell’amara constatazione che soltanto Umberto Bossi e la Lega si sono dimostrati amici fedeli. Già, ma l’Asse del Nord è un’illusione, fomentata inutilmente da Giulio Tremonti. Tanto più che la prima autentica irruzione di realtà nel paese di Lucignolo fu segnalata proprio dallo schianto con cui cadde il ministro dell’Economia, «il nostro uomo migliore», il centravanti della Tremonti- bis, il capo delle partite Iva, il genio della finanza creativa con cui suppliva alle ripetute disillusioni sulla crescita e alle smentite fattuali dei suoi Dpef. L’illusorietà politica dell’Asse del Nord è certificata dai suoi effetti politici e istituzionali. Per restare sottobraccio con la Lega, Berlusconi ha dovuto farsi in quattro per approvare una riforma costituzionale onirica, che non dispiace soltanto a Giovanni Sartori, a Domenico Fisichella, ai giuristi progressisti dell’associazione Astrid, ai "comunisti", ai dossettiani: dispiace a tutti, compresi i suoi alleati dell’Udc e di An, che finora hanno trangugiato, ma domani, visto il disastro, anzi «l’ecatombe», secondo il commento dell’abbattuto neoandreottiano Storace, decideranno che la riforma va messa nel ripostiglio della Casa delle libertà: anche perché si è visto che nel Centro-sud la devolution è diventata una briscola in mano agli avversari. È stato davvero un referendum: su Berlusconi e sul berlusconismo. Hanno votato "contro" molti di coloro che si erano lasciati prendere dall’euforia economica. E che magari erano stati ampiamente delusi dalla riforma delle aliquote fiscali, cioè dalla grande "ricetta" del capo di Forza Italia, ritrovandosi pochi spiccioli in tasca dopo annunci portentosi e dopo l’incontrollata inflazione post-euro. E che attendono ancora le grandi opere, quelle che secondo Pierluigi Bersani vengono inaugurate anche tre volte di fila, per sfruttarle propagandisticamente. Ecco, ci sarà tempo per analisi più approfondite. Ma intanto è bastata una serata per fare passare il Cavaliere dal miracolo alla piatta realtà, dall’euroscetticismo trionfalistico dello sbrego al Patto di stabilità ai richiami pesantissimi del commissario Joaquín Almunia: insomma, dal sogno al disagio del risveglio, gusto amaro in bocca, irritazione con amici e avversari. C’è da scommettere che Berlusconi tenterà di rialzarsi più allegro e dinamico che pria, e si può giurare che l’Unione, nell’anno che viene, farà di tutto per farsi male. Nel frattempo, però, benvenuti tutti nell’Italia vera.

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