Luciano Ligabue è entrato nel suo studio di registrazione, e ha cominciato a lavorare al nuovo disco. Questa è la notizia. Il resto è vita di paese incrociata con il mondo. E con lo show business, ma sullo sfondo, lontano. Qui, il solito giro, come sempre. Non ha mai messo su casa a Milano, come raccontavano dopo la separazione dalla moglie: c’è suo fratello Marco, dieci anni meno di lui, oltre al manager e amico da decenni Claudio Maioli, colui che per tutti è "il grande venditore". Ligabue ha messo insieme un repertorio potenziale di una ventina di canzoni nuove, per pubblicarne dieci. L’album uscirà a settembre, e non ha ancora un titolo. Forse verrà lanciato con un grande concerto qui nella pianura, in una di quelle notti. Si aspettano da queste parti, fra il torrente Crostolo e il Tresinaro, «fra cosce e zanzare», folle oceaniche. Il tam tam è già cominciato. Nel frattempo, vita buona, qui in mezzo all’Emilia, per una star che fra poco più di una settimana compie 45 anni. La casa appena fuori dal paese, in un ex convento rimesso a nuovo. Corse nei viottoli di campagna per tenersi in forma; una sambuca dopo il pranzo al ristorante dell’Hotel dei Medaglioni; due passi nel centro storico di tipico impianto medievale. La compagna nuova, Barbara, una biellese portata in questo pezzo di Emilia; il piacere dei bambini, Lenny che compirà sette anni a maggio, la piccolissima Linda che ha solo cinque mesi. Come sarà il nuovo disco? Musica alla mia maniera, dice il "Liga", come lo chiamano gli affezionati. Oppure "Bue", come voleva chiamarlo Adriano Celentano nel suo penultimo programma: «Posso chiamarti Bue?» Be’, se non se ne può fare a meno. E allora vai, Liga. Che cosa ci aspetta, dopo "Fuori come va?", mezzo milione di copie, e un tour che riempiva gli stadi con raduni di massa? Perlomeno si sa che questa è terra buona per la musica popolare: a poca distanza c’è Novellara, dove è sepolto Augusto Daolio, la voce dei Nomadi, e la sua tomba è ancora la meta di un pellegrinaggio, dove i visitatori lasciano un regalino, un biglietto, un ricordo. Allora, rock. Rock esplicito, rock programmatico. «Oggi la musica si ascolta distrattamente, ci arriva addosso mentre siamo in altri contesti». E quindi è necessario mantenere uno stile, un registro, una tonalità. Perché Luciano Ligabue non è un rocker qualsiasi. Sa che cos’è la gavetta. Si è sbattuto. Non se la tira. Conserva riconoscenza per chi gli ha dato una mano nei tempi duri, come il povero Pierangelo Bertoli. Poi c’è il lato tecnico, si dà il caso che sia un baritono, un caso raro in un mondo, quello della musica rock e pop, di tutti tenori; quindi con una voce particolare, scura, che arriva al massimo al sol naturale: però riconoscibile, inconfondibile, la sua. E lui è convinto che il dono divino della musica popolare risieda nella semplicità di cui è portatore il rock, «una canzone è straordinaria quando la fischietta il muratore, o magari l’intellettuale di nascosto». Non esistono geni incompresi. «Ed è commovente vedere come una canzone diventa patrimonio di tutti». Fuori nevica, sul cotto rosato del Palazzo dei Principi, ed è una nevicata di fine febbraio, un autentico fuori stagione anche per la Bassa. Sembra una citazione dal suo romanzo "La neve se ne frega", 150 mila copie vendute, un libro con cui il Liga si è messo in testa di rivaleggiare con Aldous Huxley o George Orwell, un’anti-utopia, un libro ambizioso. Ma adesso tutta l’energia è concentrata sulla musica. Quale rock, Liga? «Il rock’n’roll, quello classico, fatto con le chitarre, con quel suono particolare, con quel riff d’attacco che rende riconoscibile tutto». Chiaro: il rock è la chitarra a cinque corde di Keith Richards, il sound degli Stones, le note basse e distorte di "Satisfaction". Se si lascia andare, è capace di raccontare la sua visione olistica del corpo e della mente, di come secondo lui tutto è reso vitale da un’energia di fondo, e il palcoscenico costituisce un’esperienza in cui il fare musica sintetizza una forza vitale che viene dal pubblico, rimbalza nella band, rifluisce nelle platee. Sicché gli è venuto naturale, durante il suo "Giro d’Italia", una tournée semiacustica nei teatri, esibirsi anche in alcuni reading di Charles Bukowski, mentre Mauro Pagani contrappuntava la lettura con il violino. Molto intellettuale. «No, molto popolare». Perché lui è convinto che per essere davvero popolari ci vuole la capacità di mettere le mani nel materiale, nella musica, nelle parole, nei suoni. «Prendi Lucio Battisti, il musicista popolare per antonomasia: è quello che ha lavorato più sodo, ha costruito i suoi grandi brani togliendo invece di aggiungere, "La canzone del sole" è fatta con tre accordi. E i critici dicevano che era un cattivo cantante… Altro che cattivo cantante, era un grande interprete». Quello che gli piace di Battisti è il lavoro accanito, il suo metodo, «provi e riprovi e non ti fermi mai, e intanto aggiungi, tagli e sintetizzi…» (come da autodichiarazione battistiana in "E già"). Il prendere una tradizione e superarla, perché «prendi uno come Picasso, prima di stravolgere la forma era un grandissimo ritrattista». E popolari non si nasce, popolari si diventa. Per questo Ligabue lavora tutti i giorni, a modo suo: «Prendo la chitarra, cerco uno spunto, lo sviluppo canticchiando in uno pseudo-inglese, e registro tutto». Quanto alle parole, «aspetto che nasca un concetto, un’idea», ma i versi vengono sempre alla fine, sulla musica (con una sola eccezione, "Angelo della nebbia", un’allegoria padana come i quarantatré racconti compresi in "Fuori e dentro il borgo", il libro da cui è nato "Radiofreccia", un’autobiografia di tutti noi immersi nel fluido dell’esistenza, «scelti da chissà che mano per essere buttati in mezzo alla nebbia»). Ascolta musica un po’ eccentrica, Liga, come un tipo che si chiama James Blunt, il quale fa un soul-rock-pop «molto crossover»: però con gli amici si diverte a suonare in casa facendo una serata-Battisti o una serata-d’autore: «Perché io sono affezionato soprattutto ai cantautori, e specialmente a Francesco De Gregori», e difatti la sua canzone a cui forse è più affezionato si chiama "Metti in circolo il tuo amore", una voce alla De Andrè combinata con un fingerpicking favolosamente degregoriano o dylaniano: «Già, ho un’ammirazione anche per Bob Dylan, perché ha rifiutato di diventare un monumento, e ha continuato a mettere le mani nella sua musica, a cambiarla, senza accontentarsi di rifare se stesso». Qualcuno si diverte a montare una sua rivalità con Vasco Rossi, concerto contro concerto, stadio contro stadio, pienone contro pienone. «Ma Vasco è uno autentico». C’è da credergli, se lo dice uno che è un figlio del popolo, con il padre Giovanni che negli anni Settanta gestiva una balera, il Tropical, e che ogni giorno ripeteva che i musicisti sono tutta gente che fa la fame, ma che alla fine, senza dire una parola, gli portò a casa la prima chitarra: «Quando dico "credo nei riff di Keith Richards", come nel monologo di Stefano Accorsi in "Radiofreccia", mi si può credere: cioè si può credere a uno che ha cominciato a suonare con il prontuario per gli accordi da autodidatta, e con le tablature pubblicate da "Ciao 2001"». C’è anche da credere a un tipo che con le canzoni ha avuto un rapporto quasi diaristico, come sfogo e confessione quotidiana: la prima canzone si intitolava "Cento lampioni" ed era la storia del riscatto morale di una prostituta, un "topos" di tutti gli autori principianti. Adesso invece la musica è professione, «non ci sono più alibi, sono un professionista fino in fondo». Primo concerto nel febbraio 1987, «ero introverso, chiuso, teso, mentre adesso sul palco mi sento a casa mia». Non sa ancora bene che cosa verrà fuori dal lavoro dei prossimi mesi, «mi piacerebbe un suono da garage band», ma comunque sarà un tentativo aperto a tutti gli esiti possibili, determinato soprattutto dalla voglia, dall’ispirazione, dalla tecnica dei musicisti coinvolti nel progetto. Lavoro, lavoro e ancora lavoro perché entro giugno, al massimo luglio l’album deve esser pronto. È "una vita da mediano", come la canzone che ha segnato la nuova stagione del centrosinistra. Gliel’aveva chiesta Piero Fassino in persona, poi hanno insistito Gad Lerner e Michele Santoro, lui ha acconsentito, «ed è la mia canzone più fraintesa, perché molti l’hanno presa come una ostentazione di falsa modestia». È vero, molti dicono che non si può fare la star e poi ritrarsi nel ruolo di centrocampista di fatica: «Non è così, io sono uno che fa musica di mainstream per poter fare altre cose molto meno ovvie». Il cinema, per esempio, «che è una fregatura, perché c’è una mediazione troppo forte fra l’idea e il risultato, eppure sono riuscito a fare un film, "Da zero a dieci", che raccontava la storia di alcune persone che morivano». La scrittura, con il gusto di cambiare genere, di cercare strade anche ambiziose. E la musica. Per essere oggi capace a modo suo di parlare come De Gregori, di illustrare la vita come De Andrè, e di fare risuonare il cuore dei ragazzi che lo amano con una musica nuova e antica, come Battisti: «Be’, io ci provo».
10/03/2005