Gli ultimi due decenni del Ventesimo secolo sono stati il regno della certezza, della prevedibilità, del calcolo. Il fordismo si rimaterializzava nel toyotismo. Come spiegò Jeremy Rifkin nel bestseller "La fine del lavoro", nelle fabbriche giapponesi il ciclo del montaggio veniva stressato nei punti critici, per mettere in tensione il sistema e trovare soluzioni in grado di incrementare la produttività. Stavamo entrando nel mondo "alla McDonald’s", dove un panino può essere preso come unità di misura universale, del tenore di vita e dell’apporto calorico consigliabile, e in cui la programmazione totale del "Truman Show" era un modello incombente di struttura narrativa praticabile. Sta cambiando tutto. Il criterio, il dogma, il modulo. L’uomo a una dimensione è un residuo del Novecento, Herbert Marcuse un freak filosofico che ha sognato il passato, come un mutante di Ridley Scott. Già, "Life is random", dice la Apple nella sua pubblicità. La vita è a caso. È stato Luca Sofri, sul "Foglio" del 14 gennaio, a rilevare la tendenza: e cioè che la nuova versione dell’iPod, il riproduttore del formato mp3, contiene soltanto la funzione "random", ovvero "shuffle": «Quella che permette di ascoltare le canzoni in un ordine casuale inventato dall’apparecchio e sconosciuto all’ascoltatore». Dicono i sociologi che l’apparente irrazionalità del nuovo iPod è invece perfettamente allineata alla condizione (giovanile) contemporanea. Alle sue aspettative, e alle sue non-aspettative. Abituati all’ordine casuale della musica nelle discoteche, sempre meno vincolati al copyright, abituati a lasciarsi intercettare nel web da un link sconosciuto, i ragazzi del nuovo millennio non hanno l’abitudine mentale a rispettare le costruzioni standardizzate. Rispetto alle opportunità offerte dalle comunità estemporanee e infinitamente mutevoli di "file sharing", la rigidità di un normale cd risulta una fonte di insofferenza: il downloading possibile è infinitamente più eccitante della riproduzione codificata dal disco stampato da una multinazionale. La gioventù di oggi non è neppure un aggregato sociale: sembra piuttosto una somma di individualismi, in cui ogni soggetto agisce da solo come membro preterintenzionale della folla solitaria. L’atteggiamento quotidiano è "streetwise", guardingo come uno scout che legge e interpreta indizi metropolitani, «attento a camminare per strada guardando intorno a chi si incontra e a che cosa succede di momento in momento». In questo scenario in cui non ci sono né generazioni né "movimenti", e nel quale i complessi di norme si destrutturano. il sociologo Zygmunt Bauman ha parlato di una società «adiaforica», che sconnette le scelte dall’etica riducendole a questioni tecniche, e resta indifferente davanti alle gerarchie di valore, anzi le tratta come una dimensione "less than zero". La funzione "random", ossia la fornitura casuale di sensazioni, completa il processo e azzera anche il dilemma tecnico. Rassicura, conferma, sorprende, gratifica. Il software è stato ridotto al minimo, così come non esiste la possibilità di intervenire sulla sequenza. C’è solo un fluire assimilabile alla «modernità liquida» sempre di Bauman, in cui c’è «la libertà di trattare l’intera vita come un unico protratto tripudio di shopping», con brevi gratificazioni a ogni acquisto e a ogni esperienza. Tutto ciò si riflette su tutte le dimensioni della vita: il teorizzatore della "Terza via", Anthony Giddens, specificava che il passaggio dall’esperienza erotica casuale e frammentaria, il «sesso di plastica», all’«amore confluente» e alle «relazioni pure» rappresentava il transito verso il progetto di una nuova stabilità affettiva e a una forma ulteriore di felicità. Ma tutto ciò appare ottimistico. Oggi gli individui vivono nel «mondo a rischio» descritto dal tedesco Ulrich Beck, nella "Risiko Gesellschaft", una società priva di certezze, insicura, indefinita, in cui le identità vengono modellate da incessanti giochi di ruolo. Ognuno recita una commedia in cui il casting è fenomenologia pura, "attualità" permanente, invenzione continua di performance sociali, casuali faccia a faccia che producono un senso sempre mutevole. Insomma: nei non-luoghi descritti da Marc Augé con le loro rovine, merci e macerie, nei riti collettivi registrabili in qualsiasi ipermercato, come scrive Davide Sparti in un recentissimo libro ("Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana", Il Mulino), «il vivere stesso è un esercizio di improvvisazione, e la nostra identità, più che un nucleo fisso interno all’individuo, destinato ad accompagnarlo fino alla morte, evoca una presenza mobile». Per interpretare questa «traiettoria imprevedibile», nella ricerca di una «coerenza narrativa» apparentemente impossibile da conseguire, per stabilizzare l’uomo "flessibile" di Richard Sennett disgregato nella sua soggettività dal nuovo capitalismo, occorre una creatività che non può fondarsi solo sulle routine. La tradizione e il passato suggerirebbero di ricorrere alle forme politiche della modernità, alla creazione logica di consenso attraverso i partiti e le contrapposizioni razionali fra interessi. Ma tutto questo, nell’universo frammentario, non funziona più. Non reggono neppure gli algoritmi che presiedono a un film come "Sliding Doors", dove l’alternativa iniziale determina tutte le altre. Se tutto scorre, il mondo è così capriccioso, argomentabile da un pensiero tanto debole che alla fine si può eliminare il pensiero e lasciare esclusivamente la debolezza. Resta la citazione, la memoria erratica come in un libro diventato rapidamente di culto, "L’originale miscellanea di Schott" (Sonzogno), raccolta imperscrutabile di conoscenze sclerotizzate, catalogo di ricordi mummificati, manuale per censire i nomi dei pianeti, le regole di un duello, i nomi dei sette nani. Se poi l’impianto del racconto di vita è un reality show come il "Grande Fratello", dove tutte le strategie narrative sono aperte, la sola interpretazione praticabile è quella momento per momento, come un navigatore satellitare che "ricalcola" di continuo la mappa comportamentale. In questa selezione problematica, viene di nuovo la tentazione di ricorrere ai visionari filosofi sostenitori delle teorie "contro il metodo", quelli che spopolarono, come Paul K. Feyerabend, nel segno di una «teoria anarchica della conoscenza»: anche se adesso si tratta invece, più verosimilmente, di una pratica casuale dell’esistenza.
24/02/2005