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Lady Guastalla

03/02/2005

Il primo bar vicino all’azienda è La luna blu. L’altro è La tazza d’oro. Lei entra e tutti la salutano dicendo semplicemente: «Ciao, Anna Maria». Per tutti gli altri, per i giornali e la politica, è "la" Artoni. Qui è una di loro. Se si vuole avere un’idea di quella specialità locale che è l’azienda familiare, un concetto dell’impresa emiliana, del capitalismo di territorio, insomma di tutte quelle cose che messe insieme hanno fatto il social-capitalismo "pinker than red", più rosa che rosso, è utile una visita qui a Guastalla, profonda bassa padana, Emilia di confine. Una giornata di nebbia che smentisce le ironiche nostalgie di Luca Cordero di Montezemolo, quando dice che «non ci sono più le nebbie di una volta«. Storie: nel cuore amministrativo dell’impresa di trasporti Artoni, negli uffici dell’ex cantina sociale di questo paesone ultrapadano di 17 mila abitanti, la nebbia è nebbia, la comunità è la comunità, il lavoro è il lavoro. A lasciarla parlare, Anna Maria Artoni, classe 1967, «quasi 38 anni, ma dico ancora 37, speculo sui mesi», single, presidente dei giovani industriali, volto glamour della giovane Confindustria montezemolista, snocciola senza un’esitazione la sua genealogia. Scorre nei quadri d’epoca la figura del bisnonno Cirillo, carrettiere, cappello con la piuma e frusta in mano, un artista dello schiocco: mestiere proletario, trasportare derrate alimentari, e richiamare i clienti facendo risuonare in aria lo scudiscio; e poi il nonno Paride, il modernizzatore, quello che compra il primo camion e fonda l’azienda, nel 1933. Quattro figli, e un camion a testa: ecco nata l’impresa di trasporti Artoni, con il logo a cinque strisce che simboleggiano i figli e il padre. «Bene, l’azienda va bene», dice la Artoni. Nel 2004 ha raggiunto i 148 milioni di euro di fatturato, 18 per cento in più dell’anno precedente, mentre il settore è cresciuto soltanto dell’8 per cento. Trecentosettanta dipendenti, oltre mille collaboratori, circa 30 milioni di colli movimentati, investimenti nell’attrezzatura e nell’informatica. È una società a controllo ferreo, Luigi Artoni, settantenne di micidiale efficienza, presidente e amministratore delegato, Anna Maria Artoni vicepresidente (e direttore amministrativo fino al 2002, quando lascia l’incarico operativo per sopraggiunta carriera confindustriale): «La proprietà è famigliare, ma il modello organizzativo è manageriale. Il salto l’abbiamo fatto negli anni Ottanta, quando mio padre ha rilevato la quota dei fratelli e ha trasformato l’azienda, inserendo un gruppo di dirigenti, professionalizzando l’impresa in modo moderno». Qualcuno ogni tanto la sfotte: per il sito gossiparo Dagospia è Ulivella, la leader implicita della criptosinistra imprenditoriale; oppure, con uno sguardo critico al look, «ecco s’avanza la Artoni, occhialini da segretaria d’azienda gattomortista». Negli ultimi convegni dell’establishment confindustriale l’ala ideologica di destra ha storto il naso: «Troppo di sinistra, la Artoni». Troppo progressista, troppo sociale, troppo poco berlusconiana. E si potrebbe anche capire, dal momento che ha respirato la cultura socio-politica dell’Emilia rossa, che ha un buon rapporto con Romano Prodi, che una delle sue amiche è la deputata diesse Elena Montecchi. Al convegno della Margherita organizzato a Fiesole da Ermete Realacci, tutti pazzi per Mary Ann, e qualcuno l’ha inserita nel governo ombra del centro-sinistra. Altri parlano di una sua possibile candidatura nelle file prodiane nel 2006. È un’ipotesi realistica? «Adesso non ci sono le condizioni». E domani? «Neanche domani», risponde, con un sorriso forse traditore. Carriera che si impenna, in ogni caso, per una ragazzona dal viso spirituale e dal corpo materiale, cresciuta in una famiglia profondamente inserita nella comunità, con la madre Lilia, fama di grandissima cuoca, che conserva tutte le amicizie nella natia Correggio. Scuole pubbliche a partire dalle elementari Edmondo De Amicis, senza fisime aristocratiche, al riparo da esclusività finto-borghesi, fino al diploma di ragioneria. Amicizie quasi tutte nella parrocchia della Madonna della Porta, qualche tentazione extra-aziendale come dj proprio nell’emittente parrocchiale Radio Dimensione, nei primi anni Ottanta. Un po’ di pallavolo, «ma non ho mai pensato a prendere sul serio lo sport, anche perché sono riuscita a rompermi sei volte la caviglia sinistra» (adesso non pratica niente, per tenersi in forma si concede una settimana in una beauty farm due volte l’anno). Ci dev’essere un dato genetico emiliano e popolare, a pensarci, se una rampolla del padronato vecchio stampo non si iscrive neppure all’università: «Oppure semplicemente la voglia di cominciare subito a lavorare in azienda. Quando ho capito che mi serviva una preparazione più approfondita ho seguito un master sperimentale di Profingest, a Bologna, con un’aziendalista come Gianni Lorenzoni, e un economista come Luigi Golzio, durissimo». E deve esserci anche una specie di etica del lavoro, per una ragazza che ancora giovanissima passava le vacanze estive in azienda, a fare lavoretti, le lettere di vettura, la sistemazione dell’archivio. Un po’ controvoglia («Ma perché non continui a studiare?»), suo padre la assume a 19 anni, nel 1986, con un contratto di formazione e lavoro: forse è la precaria più ricca d’Italia, e lei ci si mette d’impegno, nell’area amministrativa, in appoggio a un’impiegata che le fa da pigmaliona: e ci mette nove anni a diventare dirigente, anche se si iscrive subito al gruppo dei giovani imprenditori di Reggio Emilia, dove fa amicizia con i giovani Ruggerini (motori), Lombardini (idem), e soprattutto con Barbara Morini (calcestruzzi), che la guida nella realtà del movimento imprenditoriale e la introduce a ciò che loro chiamano partecipazione. «Tutto dev’essere nato con un convegno dei giovani a Capri, nel 1987, quando era presidente Antonio D’Amato». Lei diventa presidente dei giovani a Reggio Emilia, e vicepresidente regionale. Fino a quando, un po’ per caso e un po’ per necessità, nasce la candidatura alla presidenza nazionale. Adesso, a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato, in aprile, Anna Maria Artoni si diverte a ricordare quella campagna elettorale con la nonchalance dei vincitori. Ma allora fu una battaglia durissima. Contro di lei, candidata delle regioni soprattutto del Nord, era schierato Vincenzo Boccia, salernitano, ex vicepresidente di Edoardo Garrone, che da due anni si stava preparando al balzo. «Campagna elettorale durissima», sorride. Sessanta giorni ventre a terra, con la sua lanciatissima squadra: Matteo Colaninno, Giannetto Marchettini, Annibale Chiriaco, Cristina Bonetti, Michela Marguati. Successo al ballottaggio, sul filo di lana, per sei voti. «È bello vincere le elezioni. Ma dopo ti senti il vuoto nello stomaco e ti chiedi: e ora che faccio?». Già, che si fa? «Ci siamo chiusi per tre giorni in un buen retiro a Castel San Pietro Terme, a due passi da Bologna, per fare brain storming». Poi una rete di relazioni, a Roma con l’Arel ed Enrico Letta, a Londra con la London School of Economics. Ma soprattutto, dice lei, la ricerca di un filo conduttore, nel tentativo deliberato di riprendere l’esperienza di un suo predecessore, Aldo Fumagalli: «Ho detto che occorreva tornare a fare politica, con l’iniziale maiuscola, nel senso della passione civile». Per questo il suo primo convegno come presidente dei Giovani, a Santa Margherita, è stato dedicato all’immigrazione: «Per mettere a fuoco le modalità e soprattutto le opportunità dell’inclusione, a tutti i livelli». Prevedibile che di conseguenza la chiamino Ulivella. Un altro convegno sulla democrazia economica, a Capri, sostenendo che la politica ha bisogno di consenso e quindi chi è obbligato a ricercare il consenso non fa le riforme, sicché Silvio Berlusconi stringe i denti, stira le labbra e commenta: «Questa volta la Artoni poteva stare zitta». Ulivella? Il fatto è che oggi vige il principio evangelico, ma interpretato poco evangelicamente, chi non è con me è contro di me. «Valeva anche con D’Amato, che pure era stato una scelta netta, di innovazione. Mentre io non credo nelle rivoluzioni, nelle rotture, nello scontro permanente. La politica implica la composizione». Finché non arriva l’era Montezemolo. E basta che pronunci il nome Luca perché all’Artoni si accendano gli occhi, dietro le lenti gattamortiste: «Perché Luca ci ha restituito un sogno». Vediamolo, il sogno. Una società, dice, in cui va rovesciata la piramide sociale: adesso le risorse sono largamente rivolte alla comunità che invecchia, quasi nulla sugli ammortizzatori sociali per i giovani nel mercato del lavoro flessibile. Un programma di sinistra, anche se lei si sottrae: «Ma davvero non è possibile esporre le proprie idee senza essere catalogati in uno schieramento?». Dipende. La presidente dei giovani imprenditori Anna Maria Artoni ha in mente un capitalismo basato sulla trasparenza, un mercato presidiato dalle regole, una competitività fondata sull’innovazione e la qualità dei prodotti; mentre nel mondo imprenditoriale, rispetto a queste ubbie giovanili, si sentono continuamente sospiri di nostalgia al pensiero dei bei tempi delle svalutazioni competitive, e si conta su una politica che consenta l’elusione fiscale, la prossimità al sommerso, la mano libera. A parlare di un capitalismo moderno si può passare per comunisti. Ed è per questo che la carriera della Artoni è a un bivio. L’ambiente dice che è la candidata principale, se non unica, alla successione di Massimo Bucci, il presidente della Confindustria dell’Emilia-Romagna. Ma intanto amici e nemici continuano a immaginarla in politica. Anche se non ci sono le condizioni. E se le condizioni si creassero? «No comment». Fuori la nebbia è sempre fitta. L’Emilia è sempre l’Emilia. Non si schiererà, non si farà candidare. Ma se davvero qualcuno le offrisse un incarico, un ruolo, facciamo un ministero, forse anche la storia degli Artoni famiglia di carrettieri, corrieri, trasportisti, potrebbe registrare novità mai viste da queste parti.

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