Per entrare con le carte in regola nel nuovo romanzo di Mauro Covacich, "Fiona", che esce in questi giorni da Einaudi, non si deve avere la cultura di un critico letterario. Anzi, forse un esercizio critico convenzionale sul libro di questo italiano di frontiera, che fa muovere anche i suoi personaggi nel suo territorio, fra Pordenone e Trieste, risulterebbe deludente. Con questo libro, Covacich continua i suoi esperimenti letterari e soprattutto "etologici": dove l’etologia costituisce lo strumento per seguire le sue maschere, per definirle, per tracciarne i movimenti. Ci sono almeno quattro storie maggiori, oltre ad alcune minori, dentro la trama di "Fiona". Sempre ammesso che di storie si tratti, e non piuttosto di strutture, e di fenomenologie. C’è la vicenda di Sandro, alias Top Banana, produttore di reality show, il deus ex machina di una specie di "Grande Fratello" ribattezzato "Habitat", che con i suoi autori-freak lascia scorrere nella Casa un esperimento di convivenza via via più hard. «Avete fatto un casting perfetto. Questa è un’edizione grandiosa, complimenti. Il paraplegico poi è un vero pezzo di bravura». Si tratta di un reality che tende ad assomigliare più a una reinterpretazione del "Truman Show", con i protagonisti teleguidati dalla regia intellettuale e spettacolare del programma, che non a uno show di intrattenimento. Dove l’esasperazione dei comportamenti individuali o di branco viene favorita, manipolata, giustificata culturalmente da Diesel, Cane Morto, Telepass e Rosita (i creativi del Network, una specie di iper-Mediaset, gente descrivibile in base agli eccitanti che assume e al corredo oggettuale di cui è dotata («il piercing di Diesel è opaco, sembra un seme d’uva espulso dalla pelle del mento»), con le opportune citazioni di Baudrillard scolpite nel testo e rivelate nel paratesto del romanzo, evidentemente per dire che i presunti alieni sono già fra noi da un pezzo. C’è poi la storia privata del protagonista, una traiettoria normale e stralunata, con la moglie, una fumatrice compulsiva che insegna storia bizantina e insegue sogni professionali implausibili; una figlia adottiva, per l’appunto Fiona, una piccola haitiana autistica, che rappresenta la polarità fisica, naturale, del romanzo, una scheggia irriducibile di realtà conficcata nelle molteplici finzioni e rifrazioni del racconto. Vittima di psicologhe e di maestre la cui capacità di astrazione costituisce la principale risorsa per rassicurare i genitori minimizzando le condizioni della bambina, Fiona è il centro non designato ma ineluttabile delle interazioni famigliari, la personalità impenetrabile che fa da fulcro ai rapporti tra le famiglie dei coniugi. E in distanza la presenza imprendibile di una donna, la madre mancata di Fiona, la donna che in precedenza l’ha rifiutata, che diventa per il televisivo Top Banana un’ossessione erotica ed esistenziale. Ma naturalmente la parte più scenografica e socialmente rivelatrice del racconto è lo svolgersi del reality show: cioè il luogo dove la ragion cinica prende il sopravvento. Il micro-mondo di "Habitat" è costellato da una sequenza di trasgressioni: alla decenza, alla tolleranza, al rispetto, alla morale, se ancora può esistere una morale. Ma l’aspetto più interessante nel commento implicito di Covacich è che anche gli spettatori più tradizionali, le mamme, potremmo dire le casalinghe ultrasessantenni che sono il target semiufficiale della televisione generalista contemporanea, si stanno adeguando al lessico e alle regole del reality show, e lasciano precipitare nel silenzio anziché nello scandalo, in un non detto che significa già accettazione, le lacerazioni più vistose alla normativa etica consuetudinaria. Sotto questo profilo, una fellatio al disabile recluso nella Casa e mostrata al pubblico televisivo diventa un passo in avanti del linguaggio televisivo piuttosto che uno sbrego alle norme morali e ai codici collettivi. È vero però che Covacich, come aveva fatto nei romanzi precedenti (l’ultimo, "A perdifiato", è uscito nel 2003, e prendeva l’avvio dalla storia abbastanza autobiografica di un atleta giunto quarto alla maratona di New York, primo bianco dopo tre neri) non ha molte ambizioni di critico della cultura o della società: eventualmente ha lo scopo di registrare le strategie individuali nelle comunità culturali, l’esercizio delle leadership, il prevalere talora per inerzia degli esemplari alpha, l’acquiescenza dei gregari. Scrittore di corsa, quindi esente dal rispetto di decaloghi o di buoni sentimenti, Covacich è uno dei non molti autori italiani che non sbrodola moralismi, che non fa sentire il suo commento, che non si sovrappone al racconto con la sua voce. Scrive con piena oggettività, per incidere nel testo la meta-realtà che vede, in filigrana, dentro la nostra normale realtà quotidiana. Alla fine risulta naturale che tutti gli elementi del racconto esplodano in una specie di dialettica impazzita, per quanto tutta decifrabile. Nella casa di "Habitat" un surplus ad un tempo assurdo e strettamente logico di violenza rivela il sovraccarico emozionale di ogni convivenza coatta. E il privato del protagonista viene messo in luce come la faccia nascosta e non programmabile dell’assoluta esteriorità del reality: mentre manovra o lascia manovrare i reclusi di "Habitat", un suo alter ego prende le sembianze di Unabomber, cioè "Minemaker", vale a dire un altro decisore occulto irrazionale, un sabotatore casuale di vite altrui. Nella storia postmoderna di Covacich non c’è ombra della consolazione che si trova nel sostanziale "happy ending" di un altro romanzo a sfondo antropologico-televisivo, "Le dodici domande" dell’indiano Vikas Swarup (vedi box ). Covacich non concede niente. Fa collidere tutti gli elementi in gioco come se fossero atomi in un acceleratore nucleare, ne scatena la forza intrinseca, ne osserva la carica che si dispiega e i suoi effetti. Fiona, la bimba afasica, si rivela effettivamente il centro di tutto l’universo del romanzo. Imbottita di esplosivi, entra con il padre nel mondo a parte del Grande fratello televisivo, portando con sé la minaccia implicita di un’esplosione che dissolva il mondo finto e ultravero del reality show insieme con il mondo vero e artefatto della sua famiglia. La propensione fenomenologica dell’autore lo induce a negare a chi legge l’acme narrativo finale. Il botto, il climax materiale. Covacich spegne la narrazione, semplicemente, come con un tasto del telecomando; fa implodere il romanzo, disintegrandone la negatività con un comando a distanza. Rilascia intorno al racconto un alone "cult", e magari la consapevolezza di avere scritto uno dei pochi libri capaci di catalizzare l’epoca: o perlomeno il trend, il trash, l’estraneità assoluta, la morte delle psicologie e delle cose nel mondo della funzionalità pura.
20/01/2005