Ha da passà ‘a Finanziaria, proprio come la "nuttata" di Eduardo. A mano a mano che trascorrono i giorni e si deposita il polverone, la manovra del governo Prodi comincia a essere identificabile anche come atto di indirizzo politico, e cioè nei suoi profili e contenuti generali. Intanto: che la compagine di centrosinistra abbia sbagliato il messaggio è un dato di fatto. Con una mediocre gestione della comunicazione, e con alcuni provvedimenti "esemplari" quanto mediaticamente catastrofici come l’innalzamento delle aliquote oltre i 75 mila euro di reddito, è caduta nell’unica vera trappola che doveva evitare: presentarsi all’opinione pubblica come il governo delle tasse. Esattamente l’accusa preventiva che il fronte della Casa delle libertà e in primis Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti avevano rivolto all’Unione. Tasse. Un vorticare di calcoli sulle aliquote. Il sospetto di un intento punitivo sui ceti medi, nel solco della tipica vendetta di classe. Un provvedimento di finanza staliniana, secondo il lessico non proprio aggiornato del Cavaliere. Misure dall’impronta sovietica, destinate all’appiattimento dei redditi. Il ceto medio-alto come i kulaki dopo la Rivoluzione, allora? «Certo, abbiamo costruito un provvedimento di centrosinistra», dice con un sussulto d’orgoglio uno degli uomini più vicini a Prodi, il ministro per l’attuazione del programma Giulio Santagata. Come per dire: che cosa si aspettava da noi il paese, la "spaghetti supply side economics" della Cdl? La finanza creativa del predecessore di Padoa-Schioppa all’Economia? Oppure una secca inversione rispetto al governo Berlusconi? Blindato nel fortino di Palazzo Chigi, Enrico Letta riflette a mezza voce: «Alla prova dei fatti una politica di rigore non piace mai a nessuno. Ma dobbiamo pensare che questa è la prima di cinque leggi finanziarie, non un episodio contingente: adesso ci siamo tolti il dente del risanamento dei conti pubblici, e nei prossimi anni abbiamo la possibilità di puntare tutto sullo sviluppo». Le conseguenze sono chiare: di qui a Natale si apre un campo di battaglia che ha per posta la sopravvivenza del governo, della legislatura, dell’intera esperienza di centrosinistra. Comincia un tiro alla fune in cui le mediazioni e le correzioni sono in una certa misura compatibili con l’impianto generale, data l’ampiezza della manovra; ma senza perdere di vista il senso complessivo del provvedimento, pena il precipitare nella farragine amministrativa, in un flagello di balzelli e gabelle temperato solo da negoziati e compromessi da prima Repubblica. In ogni caso, dopo il primo pesantissimo fuoco di sbarramento, in campo governativo si intravede un barlume: dal muro contro muro di tutti con tutti, si è passati alla tipica fase in cui ci si guarda, preparandosi al negoziato. Vero è che sulla qualità della Finanziaria il giudizio è generalmente di segno negativo. Un commentatore come Ilvo Diamanti ha segnalato l’assenza di una «missione» nell’attività del governo, vale a dire di un traguardo come l’euro o la prestazione eccezionale resa necessaria da un’emergenza assoluta. Nell’ala riformista dell’Unione, Nicola Rossi ha sintetizzato il giudizio scrivendo sul "Corriere della Sera" che si chiude tristemente una stagione, si interrompe e cambia di segno la prospettiva di «innestare nella cultura della sinistra italiana i temi tipici di un’analisi liberale della società». Equità e lotta alla precarietà sostituite alla crescita. Si torna al «tassare per spendere». Una soluzione legittima sul piano politico ma che culturalmente significa un grippaggio ideologico e programmatico. Il sindaco di Bologna, Sergio Cofferati, si è messo a capo del fronte dei sindaci, segnalando non soltanto la botta inflitta agli enti locali, probabile generatrice di nuova fiscalità, ma la «discussione surreale» sulla ricchezza, che testimonia un’intenzione redistributiva inefficace, con una conseguenza «particolarmente negativa per il centrosinistra». Il che significa che l’Unione non ha le idee chiare neppure sulla sua base più chiara di consenso politico, il lavoro dipendente di livello medio-alto. Mentre, per il lavoro autonomo, il presidente della Confcommercio, Giancarlo Sangalli, enumera i punti brucianti: «Stretta sugli studi di settore, aumento dei contributi per i lavoratori autonomi e gli apprendisti, tassa di soggiorno ai danni del turismo, la nostra categoria si sente perseguitata». Mettiamoci anche la questione del passaggio di una quota del flusso di Tfr all’Inps, i due punti di cuneo rifluiti con un gioco di prestigio nel ridisegno dell’Irpef, e dunque praticamente volatilizzati per i lavoratori dipendenti, il peso delle misure per le piccole imprese (che secondo un’analisi dell’ufficio studi della Confartigianato graverà sul settore per due miliardi di euro), i ticket sanitari, il paventato incremento dell’Ici, l’aggravio tributario sulle donazioni e successioni, il superbollo sui Suv, insomma il «pulviscolo fiscale», come l’ha definito Giuseppe Berta, che si è alzato sul reddito degli italiani, e il giudizio sembrerebbe scontato e senz’appello. La legge finanziaria per il 2007 sarebbe un infarto politico-culturale del centrosinistra. Oltretutto, con riflessi evidenti sul grado di consenso del centrosinistra, come risulta dalle indagini demoscopiche e come traspare dal sondaggio dell’Swg pubblicato in queste pagine. Pollice verso, quindi. Eppure il quadro non è immobile. I segnali di una jacquerie del mondo imprenditoriale verso il governo di centrosinistra si sono rapidamente smorzati. L’incontro annuale dei giovani imprenditori a Capri, che poteva trasformarsi in una "Vicenza 2", con una rumorosa revanche dell’ala filoberlusconiana della Confindustria, si è concluso con il congelamento delle ostilità: in parte per l’abilità dimostrata in questa occasione da Luca Cordero di Montezemolo («Non facciamoci dividere dalla politica»), ma in parte per la sensazione che ha preso a circolare nell’ambiente confindustriale, secondo cui, come ha riassunto in un’intervista il nordestino Andrea Riello, gli industriali ricevono da questa Finanziaria, a partire dai tre punti di cuneo contributivo, più di quanto abbia mai portato a casa il collateralismo polista di Antonio D’Amato. Tanto che a fine settembre, durante un incontro pubblico a Reggio Emilia per i cent’anni della Cgil, il segretario Guglielmo Epifani si era lasciato andare: «I tre punti di cuneo alle imprese? La verità è che il taglio si fa per una promessa elettorale, ma molti nella maggioranza sarebbero contenti di non farne più niente, visto che da mesi le aziende hanno ricominciato a fare profitti…». A Bologna, assemblea annuale della Confindustria petroniana, la "pace fredda" con Prodi è stata siglata dal presidente Gaetano Maccaferri con il dono di una bicicletta Colnago da corsa marchiata Ferrari, ma soprattutto con la dichiarazione di non belligeranza garantita dal finanziamento della metropolitana. Circola la sensazione che gli squilli di guerra delle imprese contro il governo provengano dalla base più vocalmente schierata a destra, i berluscones che affliggono le sedi territoriali con proteste, lettere e fax reclamando "facite ‘a faccia feroce", più che al mainstream confindustriale, propenso a incamerare i vantaggi del cuneo e a capitalizzare quindi la ripresa. E allora dov’è il vero ostacolo del governo, il suo punto critico? Fermo restando che i numeri al Senato sono quelli che sono, non appare una minaccia troppo grave il "tavolo dei volonterosi" promosso dal leader radicale Daniele Capezzone e dall’udc Paolo Messa per introdurre modifiche liberali nel testo della Finanziaria: la possibilità di slittamenti politici verso prove di larghe intese è talmente evidente da essere già stata sterilizzata con gli ukase del segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano e simmetricamente dell’ex ministro leghista Roberto Maroni. Sul versante europeo, Prodi e Padoa-Schioppa hanno incassato il via libera del commissario Joaquin Almunia e del presidente dell’eurogruppo Jean-Claude Juncker, che ha definito «impressionanti» gli sforzi del governo. Forse comincia ad assomigliare alla realtà ciò che si aspettavano i più scafati nel circuito prodiano di Palazzo Chigi: dopo una veemente fase di wrestling, si passerà pragmaticamente alla verifica empirica, al calcolo di chi guadagna e chi perde, alla trattativa in aula e con le lobby. Su questo terreno, il governo può farcela. Può sopravvivere politicamente, anche se sul piano della cultura politica, del messaggio al paese, come indicazione di un profilo di società desiderabile, il quadro è quello di un’operazione di ordinaria (o straordinaria, pensando alle dimensioni della manovra) democristianeria. L’imperativo cruciale è condurre in porto la seconda Finanziaria per entità, dopo quella di Giuliano Amato dell’autunno 1992, costi quel che costi: anche se il riformismo deve attendere, e per «l’Italia che vogliamo», vecchio slogan ulivista di dieci anni fa, occorrerà aspettare tempi meno perigliosi. n
19/10/2006