È possibile che all’opinione pubblica sfuggano i contorni effettivi del caso Telecom, anche perché a un problema di strategia industriale si aggiunge un colossale affare di spionaggio, le cui finalità sono ancora tutte da accertare («Un attentato alla democrazia», lo ha definito Guliano Amato). Sicché non è chiaro a che cosa si debba il colpo di scena che ha movimentato lo scontro con il capo del governo, e cioè le dimissioni di Marco Tronchetti Provera dalla presidenza del gruppo telefonico. Una via di uscita e una soluzione di garanzia, con la nomina di Guido Rossi come forza di interposizione fra la Telecom e Romano Prodi? Oppure una misura prudenziale di fronte allo scatenarsi del caso spionistico, cioè dell’affaire che investe l’azienda, i suoi possibili concorrenti o alleati, i servizi segreti, gli ambienti del calcio? Ogni risposta è arbitraria, ma intanto sarebbe il caso di soffermarsi sulla questione industriale, a cominciare dallo scontro con il governo. Di cui si sono esaminati molti aspetti, ma non si è discusso affatto su come mai un uomo misurato come Tronchetti Provera, un caposcuola nell’arte di non sbilanciarsi, ha deciso di scatenare una guerra totale contro Palazzo Chigi. Ancora non si è capito infatti per quale ragione il "documento Rovati" è stato fatto arrivare alla stampa: quella mossa non è nel galateo imprenditoriale, non appartiene alle consuetudini; è piuttosto una iniziativa ascrivibile a un capitalismo avventuriero, che si sente nella condizione di rompere ogni vincolo di riservatezza e qualsiasi rapporto fiduciario. Non si era mai visto un gruppo economico decidere di innescare uno scontro così violento con l’istituzione governo. A quale scopo, poi, è difficile dire. Anche l’osservatore profano può intuitivamente ritenere insensata la decisione di cominciare una guerra sganciando una bomba potentissima non convenzionale, cioè divulgando il piano «artigianale» proposto da Angelo Rovati, senza avere un’idea sulla strategia successiva. A meno che, naturalmente, le idee non fossero chiare o chiarissime nella mente degli autori, e implicassero ipotesi piuttosto dettagliate su cessioni o accordi potenzialmente sgraditi al governo. Tutto questo sembra ridimensionarsi, dopo l’esplodere del caso spionistico; ma sarà bene non dimenticare che la Telecom è anche un problema economico: peggio, una matrioska di problemi, economici, industriali, giuridici, e alla fine anche etici. Perché non c’è soltanto quella specialità tutta italiana costituita da una catena di controllo a base di scatole cinesi, che attestano la debolezza del regolatore pubblico di fronte alla capacità dei soliti noti di trasformare una public company in un affare privato. E non si tratta soltanto di quella incertezza nella strategia industriale che fa passare un colosso come Telecom dai progetti di integrazione fra telefonia fissa e mobile allo scorporo della Tim e quindi alla sua possibile alienazione. Questa o quella pari sono? In attesa della risposta, e in attesa anche degli sviluppi dell’affare spionistico, ci sarebbe anche da mettere a fuoco uno degli aspetti più sgradevoli emersi dall’inchiesta giudiziaria: vale a dire il gioco delle tre tavolette, o dei tre conti bancari, che secondo i magistrati milanesi consentiva di piazzare i profitti sulle operazioni di Borsa sui conti personali dei vertici Telecom, e le perdite sul conto dell’azienda. Se questa ricostruzione fosse confermata, saremmo davanti a una interpretazione originale del giudizio di Ernesto Rossi sul capitalismo italiano, capace tutt’al più di «privatizzare i profitti e socializzare le perdite». Naturalmente occorrerà aspettare che la ricostruzione sia confermata, prima di emettere valutazioni sulle persone. Ma intanto, si fosse sentita una frase, un giudizio, anche un sospiro da parte del mondo economico e imprenditoriale italiano: così pronto a sanzionare duramente il dirigismo e lo statalismo, vero o presunto, del governo, ma non particolarmente efficiente nell’indicare che comportamenti simili non appartengono alla moralità del capitalismo moderno. Fatte salve le figure di Tronchetti, Buora e compagni, illibate fino a prova definitiva e contraria, sarebbe o non sarebbe benvenuta qualche parola autorevole sul fatto che certe pratiche, sia detto sommessamente e senza demagogia, non sono un esempio di come dovrebbe funzionare l’economia di un paese civile, moderno, liberale, trasparente, competitivo (e via capitalisticamente moraleggiando)?
05/10/2006