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Le guerre private del soldato Oriana

28/09/2006

Quelli che non amano Oriana dicono di apprezzarne la grande personalità, la vena provocatoria, l’intelligenza, le provocazioni che «ci hanno obbligato a pensare». Lo ha detto anche Romano Prodi, che non dev’esser stato un grande lettore della Fallaci, e comunque non deve avere messo a fuoco con precisione le quattro pagine di insulti stampate nel pamphlet dell’aprile 2004 "La forza della ragione" in una «letterina» che comincia così: «Signor Presidente della Commissione Europea, so che in Italia la chiamano Mortadella. E di ciò mi dolgo per la mortadella che è uno squisito e nobile insaccato di cui andar fieri, non certo per Lei che in me suscita disistima fin dal 1978». Vale a dire, spiega Oriana, dalla celebre seduta spiritica a casa che diede l’equivoco responso "Gradoli" sul luogo di prigionia brigatista di Aldo Moro. Gli avversari di Prodi non hanno molti motivi di andare fieri del loro amore per la Fallaci. A Gianfranco Fini, Oriana si rivolge dicendogli: «Lei mi ricorda Palmiro Togliatti, il comunista più odioso che abbia mai conosciuto»; e il suo verdetto verso il postfascista-comunista Fini è senza pietà: «Signor Vicepresidente del Consiglio, nonostante la Sua aria quieta ed equilibrata Lei è un uomo molto pericoloso», perché vuole dare il diritto di voto amministrativo agli immigrati islamici. A Silvio Berlusconi, altre mazzate fallaciane: «Signor Cavaliere, noi due non ci amiamo. Si sa». Sempre per via del voto ai musulmani e della corrività di Berlusconi verso i musulmani. Traspare anche da queste parole una delle caratteristiche della Fallaci, un tono fra il popolaresco e il dialettale, con l’adozione di luoghi comuni sedimentati, che dev’essere una qualità della sua toscanaggine: un certo becerume dell’intelligenza e dello stile proiettato nel cosmo della globalizzazione, con collisioni ed effetti strepitosi, ora diva al fronte, e stivali ed elmetto, ora «sora Cecioni va alla guerra» (copyright Giulio Anselmi, almeno secondo Dagospia). Quel linguaggio in volgare fiorentino, con le apocopi e i toscanismi di chi non vuole normalizzare il proprio idioma nella lingua standard, e che talora ricorda improvvisamente l’Arno e i manzoniani minori, Pinocchio, Renato Fucini. Un pensiero irresistibile perché prende il sentire comune e lo trasforma in paradigma o ultraparadigma contemporaneo, aggiungendovi punti esclamativi a iosa. L’evento grandioso e terribile dell’attentato alle Twin Towers e il suo grido, la rabbia, il furore che reclama la partecipazione, di più, la passione dei suoi lettori, facendola immaginare mentre si dispera nel suo appartamento di Manhattan. In realtà aveva cominciato da bravissima giornalista, senza negarsi le minuzie della contemporaneità. C’è ancora chi ricorda un suo reportage dal Festival di Sanremo del 1961, in cui componeva un ritratto perfetto di Mina, che non sfigurava affatto di fronte alla divina leggerezza con cui Camilla Cederna aveva descritto Adriano Celentano nella sua casa milanese con la famiglia immigrata. (Dev’esserci qualche parentela essenziale, con Mina: entrambe non bellissime ma capaci di apparire talvolta stupende, entrambe afflitte da un’inclinazione irrimediabile allo stentoreo, all’urlo, allo sgolarsi, entrambe più o meno ritirate o esuli: «Perché in America, è giunta l’ora di gridarlo chiaro e tondo, io ci sto come un fuoruscito»). Ma poi Oriana aveva capito che si poteva fare anche un altro giornalismo: una forma letteraria hardcore in cui l’autore, anzi l’autrice, la donna, l’Oriana diventa protagonista, invade la scena, recita praticamente tutte le parti. Ben più che "me journalism": la Fallaci decide che si può modificare il quadro, intervenendo nel contesto, alterando quindi la rappresentazione, la narrazione, lo schema, l’immagine finale. Esserci: in Vietnam sugli elicotteri di una normale, quotidiana "Apocalypse Now", nella piazza delle Tre culture, prendendosi le pallottole della repressione antistudentesca messicana. Porsi al centro della scena, provocando un colossale slittamento ermeneutico: frega niente di Kissinger o Khomeini, leggiamo la lotta a corpo a corpo della Fallaci con il suo nemico. Storie di guerra, di astronauti, di leader mondiali, in cui mette a confronto la propria semplicità di pensiero, e la propria durezza di combattente di un’idea, con gli altri, i suoi intervistati, le vittime. Attentissima a costruire la leggenda di se stessa perché in realtà ogni suo libro, come ogni intervista, e anche ogni inchiesta o reportage parla della sua vita, della giovanissima partigiana, della cacciatrice di scoop, della miliziana, dell’inchiestista suprema che piomba a Roma e con un raid mozzafiato scopre il complotto dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini; e ci mette dentro le sue amicizie, gli amori, l’eroe Alekos Panagulis, la vita famigliare con il babbo e la mamma, sempre con accenti da star greca, tragica, mitologica, una Furia come dice Giuliano Ferrara, o per i più scettici una Maria Callas o una Irene Papas sul fronte della tragedia, comunque di un "oltre", di un orizzonte allucinato, illividito da incendi e da nubi nere di petrolio a cui attribuirà la propria malattia. I lettori stravedono da decenni per lei, per quello che scrive, perché parla semplice, ha un’idea su tutto e la esprime con parole chiare. Può insegnare strategia ai generali e geopolitica agli statisti, ma anche addentrarsi nella psiche femminile e nei lutti quotidiani delle donne. E soprattutto far sentire in ogni pagina la propria voce, l’eco del suo Io, la sua visione del mondo ora vecchio stampo, socialista umanitaria come il babbo, ora irradiata nell’universo delle guerre, intersecando giudizi clamorosi, condanne capitali, verdetti ogni volta senza scampo. Sicché quando parla la Fallaci c’è la sensazione di una che perlomeno non si nasconde dietro le parole, e che supplisce alle incertezze della gente comune con sentenze che fanno corpo, alimentano un codice fallaciano, uniscono e dividono (ma hanno ragione Mortadella e tutti gli altri, mediocrità ovviamente comprese: la personalità è fortissima, le valutazioni schiette, il grido si alza spaventoso, e riesce difficile non farsi affascinare da questa dea popolare che ormai veleggia sopra la destra e la sinistra, al di là delle categorie politiche della normalità). Quelli che invece la detestano semmai sono i critici perlopiù letterari, che di solito non amano il suo stile tonante. Quando pubblicò "Insciallah", nel 1990, Enzo Golino commentò: «Grand Guignol… Kitsch cruento… Quel che non funziona nel romanzo è la costruzione narrativa». Lei naturalmente ne era orgogliosissima, convinta che quel libro fosse un capitolo essenziale del Novecento letterario e storico. Tanto da lasciare passare 11 anni prima di pubblicare un altro libro, quel "La rabbia e l’orgoglio" che nel 2001 si è collocato al centro del "clash of civilization", il "libro abietto" secondo i titoli dell’ultrasinistra francese, processato qua e là per razzismo, che poi avrebbe generato l’immagine dell’Islam come il mostro a sette teste e dieci corna dell’Apocalisse. «Penso a quel libro», ha scritto lo storico "di destra" Franco Cardini, rivolgendosi al ricordo di «una vecchia amica lontana», «di cui non condivido nemmeno il colore della copertina…», per poi aggiungere di restare ammirato per la forza evocativa, «quasi faustiana». Di sicuro ha combattuto la sua ultima guerra, gridando come al solito, alla sua maniera. Anche se, forse, ciò che avrebbe dovuto e voluto raccontare, nella sua vecchiaia, sarebbe stata la sua storia di ragazza toscana, la vita vera prima dell’esistenza al centro del mondo. n

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