Sarà pure "sexy" la maggioranza stretta, come dice Romano Prodi, ma la differenza fra eros e thanatos, il piacere e il dolore, fra la tenuta e la caduta del governo è un niente, un diaframma impalpabile, uno spessore di carta velina. Ogni giorno una fibrillazione, un ostacolo da superare: il rifinanziamento della missione in Afghanistan, l’indulto, il decreto Bersani, la manovra correttiva. E sullo sfondo si profilano fin d’ora le strettoie della Finanziaria, con l’attesa di un settembre burrascoso. Le prospettive della legislatura sono incerte, a dimostrazione che il problema del Senato era stato sottovalutato. «C’è stato un deficit di realismo», commenta il politologo Piero Ignazi: «Occorreva mettere a frutto il risultato delle amministrative e il referendum sulla Costituzione, due risultati che avevano dimostrato che la spallata della Casa delle libertà era fallita». Nel centrosinistra non abbondano le soluzioni per uscire dall’impasse. Vecchi navigatori delle aule parlamentari fanno presente che Prodi non è mai stato un uomo del Parlamento. Altri segnalano una certa rigidità da parte del ministro dei Rapporti con il Parlamento, Vannino Chiti. Di fronte all’ipotesi di allargare la maggioranza, ventilata (invocata, ridimensionata) anche da uno dei numeri due di Prodi, Enrico Letta, e sostenute dal capogruppo dell’Ulivo al Senato Anna Finocchiaro, nell’entourage di Palazzo Chigi si mostra scetticismo. Il portavoce di Prodi, Silvio Sircana, ha coniato la formula secondo cui occorre cercare non tanto intese più larghe, quanto «restringere lo spazio dell’opposizione». Ma che cosa significa in concreto? Giulio Santagata, ministro per l’Attuazione del programma e storico braccio destro di Prodi, è molto prudente sull’evoluzione degli equilibri parlamentari: «Allo stato attuale è poco plausibile un coinvolgimento palese di forze dell’opposizione. Anzi, per niente». D’altronde non ci vuole molto a registrare che il muro contro muro sui provvedimenti blinda gli schieramenti. Non sono preventivabili defezioni dal centrodestra, né singole né collettive. Una campagna acquisti informale nelle file del centrodestra è resa impraticabile dalla condizione di estrema incertezza: nessuno è disposto a cambi di casacca se non sono chiari i vantaggi di una scelta simile e la loro durata. Eppure il presidente della Repubblica non perde occasione per segnalare il rischio che lo scontro continuo inneschi una «spirale distruttiva». Gli schieramenti devono parlarsi civilmente, dice Giorgio Napolitano. Ma dove sono le condizioni per una ripresa del dialogo? Prodi sembra in bilico su un’alternativa impossibile: governare con due o tre voti di maggioranza al Senato lo logora, uscire dall’autosufficienza dell’Unione lo abbatterebbe. Santagata e i prodiani a Palazzo Chigi proiettano il governo nel medio periodo: «Proprio perché siamo realisti dobbiamo puntare alto. Non è un espediente scaramantico. Che cosa aveva detto Romano ai ministri, negli esercizi spirituali di San Martino in Campo? Dovete avere il coraggio di stupire. Il governo ha una possibilità solo se riesce a fissare obiettivi di riforma che creino consenso nell’opinione pubblica, se si fa trasportare da un’onda favorevole nella società che tolga peso e voce all’opposizione». Facile a dirsi. Era l’"effetto Bersani", la ventata di innovazione suscitata dal decreto sulle liberalizzazioni. Seguita dai musi lunghi dopo le manifestazioni di giubilo dei tassisti, e le critiche di Francesco Rutelli all’accordo stipulato da Bersani con la categoria. Ma allora come può, realisticamente, un governo fragile trasformarsi in un governo forte? Negli ambienti politici più tradizionali si analizzano scenari alternativi. Mentre Pier Ferdinando Casini fa il possibile per restare sotto traccia, i due postdemocristiani di punta dell’anti-bipolarismo, Bruno Tabacci e Marco Follini, continuano a evocare cambi di schema. Le larghe intese, la scomposizione e la ricomposizione degli schieramenti. Il format politico trasformato in un laboratorio della Terza Repubblica. Si susseguono, anche con esplicite volontà provocatorie, identikit sulla personalità dell’eventuale successore di Prodi in un governo di "responsabilità nazionale" o in una "coalizione Montezemolo": il tecnocrate Mario Monti, il governatore di Bankitalia Mario Draghi. La tesi è sempre quella esposta prima delle elezioni politiche dall’ex commissario europeo: se i Poli si paralizzano a vicenda e non riescono a fare le riforme necessarie per il paese, un cavaliere bianco al centro del sistema raccolga le forze riformiste e proceda a realizzarle, senza più schematismi e forzature bipolari. Questi scenari fanno rabbrividire gli ulivisti più radicali. Arturo Parisi, teorizzatore e ideologo della scelta bipolare, è convinto da mesi che la politica italiana si trova di nuovo su una linea di crinale. Se si scivola all’indietro, anche a causa dei varchi aperti dalla proporzionale, non ci sarebbero probabilmente più appigli per arrestare la deriva consociativa. Ne consegue che l’imperativo è uno solo: l’Unione deve resistere. Momento per momento, battaglia per battaglia, voto per voto. Ogni risultato positivo conseguito in Parlamento è un pericolo in meno che si prospetti un cedimento compromissorio. Anche perché per il momento si è dimostrata infondata la tesi cullata sommessamente dall’Unione dopo le elezioni di aprile: e cioè che con il procedere della legislatura si sarebbe assistito a un allentamento della tenuta della Cdl. Un’erosione fisiologica, uno sfilacciamento, la "stanchezza dell’opposizione" su cui puntava anche Palazzo Chigi. In realtà il centrodestra è compattissimo, nonostante il cabotaggio neo-popolare impostato da Gianfranco Fini per An, che potrebbe metterlo prima o poi in rotta di collisione con Forza Italia (ma che mantiene An nell’area della governabilità anche in caso di esecutivi di garanzia), e l’insofferenza dell’Udc per ogni discorso a conferma della leadership di Silvio Berlusconi. Il "programma" della Cdl è stato esposto con chiarezza da Giulio Tremonti: Prodi cadrà sulla Finanziaria; di conseguenza il centrodestra non può permettersi il lusso di una stagione costituente, deve essere pronto a ogni evenienza. Alla "grosse Koalition" come alle elezioni. Al rimescolamento politico-parlamentare come a un nuovo scontro elettorale. Ma anche questo compattamento imprevisto, sostiene il club prodiano, è una tenuta "a tempo". Contiene una data di scadenza. È una strategia logica e razionale, ma che può svuotarsi se il governo e l’Unione dimostrassero con i fatti la propria capacità di gestire i mesi di emergenza del prossimo autunno-inverno. Vale a dire la capacità di mobilitare tutti i partiti della coalizione a sostegno di scelte di fondo condivise su base programmatica che dovranno misurarsi, e scontrarsi, con gli interessi reali. Il capo del governo ha in mano una sola carta, quella che ha mostrato nella contestata intervista al direttore della "Zeit" Giovanni Di Lorenzo: «Se cade il governo, ci aspettano sessant’anni di centrodestra», e che ha risottolineato al "Corriere della Sera": in un traumatico dopo Prodi ci sono soltanto le elezioni. Nell’area governativa non si prendono in considerazione soluzioni creative come lo scioglimento del solo Senato, che vengono considerate una specie di «esercizio enigmistico». Una sfumatura di ottimismo, ma niente più che una sfumatura, e anche volontaristica, viene offerta dall’idea che la politica estera è stata il terreno in cui si sono manifestati casi di coscienza anche drammatici e, lo si è visto, non negoziabili (come quello che ha portato alle dimissioni dalla Camera il deputato di Rifondazione comunista Paolo Cacciari); mentre sulla Finanziaria Prodi è convinto di poter armonizzare rigore e sviluppo, tagli e rilancio, severità ed equità. È il "prodismo": cioè la convinzione che la tenuta del governo possa essere la piattaforma per la ristrutturazione del centrosinistra, cioè la base progettuale e operativa del Partito democratico. Anche se per ora il governo Prodi sembra un caso di scuola della divaricazione fra l’esperienza di governo e il livello politico-partitico. Prodi governa, o tenta di governare, segnala la discontinuità in politica estera, riguadagna posizioni e coglie qualche successo nell’arena internazionale, prepara con Tommaso Padoa-Schioppa una Finanziaria straordinariamente difficile, mentre i Ds e la Margherita litigano sulla futura collocazione nel Pse del suo progetto politico, il Partito democratico (che a sua volta apre crepe vistose nella sinistra del partito di Piero Fassino). Effetti prevedibili del sistema proporzionale, dicono gli analisti politici. Ma ora non è più questione di teorie politologiche. È cominciata una corsa parallela, in cui governo e opposizione procedono affiancati, scambiandosi colpi, ciascuno aspettando che l’altro cada per stanchezza. E Prodi, che vede davanti a sé l’incubo della maratona più breve della sua vita, non ha altra strategia se non di fare un passo in più degli avversari, un metro alla volta, uno scatto dopo l’altro. Sempre nella speranza che, alle spalle, non gli facciano lo sgambetto. n
03/08/2006