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PARTITA DOPPIA

20/07/2006

Cè un momento in tutti i processi in cui il tribunale si forma l’idea della colpevolezza o dell’innocenza degli imputati. È un meccanismo psichico collettivo, ancor prima che un procedimento giuridico: per questo il diritto è anche una scienza sociale, e non solo un astratto complesso di norme da cui si distilla una sentenza. Ed è per questo che lo scandalo di Calciopoli, giunto alla sentenza di primo grado, è influenzato dall’esito di una partita doppia. La prima partita si è giocata in seguito alla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, che hanno rivelato «l’illecito strutturale» identificato da Francesco Saverio Borrelli. Un reato sportivo di sistema, simile per certi aspetti alla «dazione ambientale» identificata da Antonio Di Pietro per Tangentopoli, che ha condizionato i campionati, influenzato gli arbitri, messo in campo rapporti di potere, creato una specie di duopolio dominato dalla Juventus e dal Milan, e nella cui orbita si sono accodate altre società, come la Fiorentina dei Della Valle e la Lazio di Lotito. La seconda partita invece si è giocata a Dortmund e a Berlino, nella semifinale con la Nazionale tedesca di Klinsmann e Ballack e infine nella drammatica e liberatoria finale con la Francia di Domenech e Zidane. Ed è stato dopo la vittoria al Mondiale che il clima è cambiato, con una vistosa trasformazione dell’atteggiamento dell’opinione pubblica. Per rendersene conto è bastato assistere al miracoloso materializzarsi di Clemente Mastella in tribuna all’Olympiastadion, a fianco del presidente Napolitano, simbolo di un tempismo eccezionale, con il fiuto del politico di razza, che come diceva di conoscere meglio i mercati rionali dei mercati internazionali, concepisce con maggiore facilità gli impulsi della passione calcistica rispetto ai dettami della ragione giuridica. Il messaggio comunicato dal ministro della Giustizia era facile da decodificare (poi le sue dichiarazioni pubbliche hanno completato l’opera): c’è una giustizia formale, che tutti noi rispettiamo, ma c’è anche un elemento sostanziale, vale a dire che i "nostri ragazzi" hanno conquistato il massimo alloro calcistico. Mettiamoci poi l’imprimatur di Napolitano, il ricevimento degli azzurri da parte di Prodi, la trionfale glorificazione in pullman fino alla folla del Circo Massimo, e il segnale diventa chiarissimo: urge il colpo di spugna. Non è possibile, in tutta ragionevolezza. Le richieste del procuratore federale Stefano Palazzi erano state talmente severe da non rendere plausibile un passo indietro, il "liberi tutti". La giustizia sportiva non poteva dire "avevamo scherzato", pena la perdita di qualsiasi credibilità agli occhi del mondo non solo calcistico. Tuttavia il ragionamento della giustizia "sostanziale" ha fatto rapidamente breccia. Il Mondiale tedesco ha visto come protagonisti tre giocatori juventini, Buffon, Cannavaro e Zambrotta, che sono risultati decisivi nell’esito della competizione (altri, come Camoranesi e Del Piero, hanno dato un loro onesto contributo). E allora, dice il sillogismo "sostanziale", è possibile che alcuni fra i migliori giocatori del mondo, che si sono prodigati per la patria pallonara, debbano scontare le responsabilità dei loro dirigenti? Che un terzetto difensivo dimostratosi di valore planetario debba subire una condanna che deriva dalle mene di Moggi e sodali? Che colpa abbiamo noi, dice la canzone innocentista dei tifosi, e che colpa hanno loro, i giocatori? Ancora: è possibile che due centrocampisti dotati rsipettivamente di abnegazione e di classe come i milanisti Gattuso e Pirlo, e attaccanti come Gilardino e Inzaghi, debbano farsi carico delle male azioni del potere che il Milan di Adriano Galliani ha eretto con e contro la Juventus (facendo affari insieme per i diritti televisivi e scambiandosi colpi sotto la cintura nella competizione in campionato)? Come si vede, si tratta di piani paralleli, largamente incoerenti sotto il profilo logico. Da un lato la soddisfazione e l’emozione del Mondiale conquistato ai rigori, dall’altro il rigore tecnico della procedura penale sportiva. Ma sarebbe altrettanto illogico non valutare il peso del fattore psicologico. Sotto questo aspetto, le iniziative più spettacolari si devono a Clemente Mastella, confermatosi l’esponente più in vista di un populismo politico-sportivo che mette in primo piano i risultati rispetto ai regolamenti. Ma subito dopo non si può trascurare l’atteggiamento del segretario dei Ds, Piero Fassino, iscrittosi al partito della clemenza. Per la verità, il ragionamento di Fassino è più romantico e sottile di quello dei sostanzialisti scatenati, capeggiati da Giuliano Ferrara, che spara a palloni incatenati: «Per i Borrelli e i Rossi non basta punire comportamenti scorretti, eventualmente provati da seri processi, bisogna appunto rovesciare il mondo e dimostrare l’indimostrabile contro il principio di realtà: la palla è quadrata e i campioni del mondo hanno rubato gli scudetti, anche se sono formidabili rigoristi e hanno il carattere che si è visto». No, Fassino rispetta le forme, ma distingue fra imputati e tifosi, fra dirigenti e squadre. L’illecito strutturale descritto da Borrelli giustifica il repulisti dei dirigenti che hanno inoculato il virus nel calcio, ma occorre stare attenti a non umiliare i tifosi e la storia delle squadre implicate. Il fatto è che a prendere sul serio questa riflessione si affloscia il principio supremo su cui si basa, o si è basata finora, la giustizia sportiva, ossia il criterio della responsabilità oggettiva. Il processo svoltosi a Roma è una novità storica in sé, perché può decapitare l’aristocrazia del calcio nazionale, e perché coinvolge dirigenti societari e federali, ma non tocca nessun calciatore. Secondo il massimo innocentista in materia, il giornalista del "Foglio" Christian Rocca, il caso di Calciopoli è «un caso di corruzione sportiva che, unico al mondo, non vede implicato nessun atleta». Ecco quindi che anche la disquisizione di Fassino trova qualche giustificazione in più. Si affaccia l’idea, affidata attraverso le colonne di giornale al giudice Ruperto, che il processo avrebbe dovuto fare leva sulla "slealtà sportiva" (articolo 1) e non sull’"illecito" (articolo 6), di cui è difficile portare prove fattuali, anche perché Calciopoli non ha prodotto fenomeni di pentitismo. Certo, se l’illecito è "strutturale", se al potere di Luciano Moggi si erano affiancati altri poteri e contropoteri, se alla cupola numero uno si era opposta una cupola numero due, il processo non si può concludere, alla fine di tutti i gradi di giudizio, se non con una condanna generale. Ma, per l’appunto, c’è modo e maniera. La giustizia sportiva è abituata per tradizione a graduare le pene nei diversi livelli penali: agli inizi prevale la necessità di condanne esemplari; nei gradi successivi subentrano considerazioni più generali, che in questo caso potrebbero tenere conto inevitabilmente anche di aspetti sostanziali. In primo luogo, il fatto che la condanna a una serie inferiore potrebbe avere ripercussioni distruttive sulle "aziende" calcistiche, anche quotate in Borsa, e quindi su un numero di "stakeholder" che verrebbero danneggiati senza nessuna responsabilità e con pochissime possibilità di rivalsa. Ma poi c’è una serie amplissima di calcoli e sofismi giuridici, prodotti dalla collisione fra giustizia sportiva e logica calcistica. Ad esempio, una società come il Napoli, rilanciata a suon di quattrini buoni dal presidente Aurelio De Laurentiis, appena salita in serie B e carica di ambizioni, che ha fatto investimenti pesanti per tentare l’aggancio immediato della massima categoria, potrebbe sentirsi danneggiata ingiustamente e in modo pesante dal ritrovarsi come concorrenti tre o quattro squadre di caratura superiore, destinate quasi automaticamente alla risalita in serie A. Quindi il clima si confonde. L’effetto Mondiale è soltanto lo sfondo sentimentale e a suo modo politico del cambiamento di atmosfera. Vanno aggiunti i tentativi di patteggiamento informale dei legali della Juventus per evitare guai peggiori («La serie B sarebbe una punizione adeguata»). Ma anche i problemi economici che investono il terreno dei diritti televisivi, con il Milan che ha bloccato una tranche di pagamenti alla Juve; l’ipotesi che un eventuale ricorso al Tar del Lazio possa mandare nel caos il mondo del calcio nella sua interezza; l’apparizione, sempre possibile, di altre intercettazioni, tali da movimentare ulteriormente le responsabilità di società e dirigenti, complicando il quadro attuale. Con il passare dei giorni le certezze tendono a farsi meno solide. E in queste condizioni, sulla scia dell’impressionante entusiasmo popolare suscitato dalla vittoria di Berlino, comincia a fare presa la sensazione che il processo non sia affatto finito e che la partita doppia possa complicarsi ancora prima della sentenza definitiva, prevista entro il 25 luglio. D’altronde, le rivoluzioni cominciano tagliando le teste, ma poi arriva, contro Robespierre, il mese di Termidoro. L’importante sarebbe perlomeno evitare la Restaurazione. n

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