gli articoli L'Espresso/

Il Cavaliere bocciato

06/07/2006

Era l’ultimo snodo politico. L’ultima occasione per scardinare la maggioranza e il governo, dopo il risultato allo spasimo delle politiche. Fallita la spallata delle amministrative, il referendum costituzionale del 25-26 giugno era l’opportunità estrema per scuotere l’equilibrio politico. Infatti Romano Prodi era preoccupatissimo. In treno da Roma a Bologna, alla vigilia del weekend elettorale, consultava sondaggi che lo riempivano di inquietudine. Al crescere della partecipazione verso il 50 per cento, il vantaggio del No si riduceva avvicinandosi alla sfera dell’errore statistico. Sarà stato l’effetto Ciampi. Secondo Nando Pagnoncelli di Ipsos il pronunciamento del presidente emerito ha favorito in modo sensibile il delinearsi delle convinzioni, ha convinto gli indecisi e li ha portati ai seggi. Per altri analisti, Ciampi può avere spostato un milione di voti, una quota di quasi il 5 per cento. In ogni caso ciò che è uscito dalle urne ha spazzato via molte nuvole. Si è sentita subito aria fresca. Perché è vero che per ora la condizione operativa del governo non è migliorata. Ma perlomeno la Casa delle libertà non può rivendicare il successo politico "morale" che avrebbe reclamato in caso di approvazione della riforma costituzionale. Sarebbe stata la prova che la maggioranza di aprile era una finzione. Invece adesso il risultato si rovescia sul centrodestra, aprendo ipotesi politiche inedite. «Il referendum confermativo ha sancito a posteriori quell’affermazione politica che l’Unione aveva afferrato in modo rocambolesco alle politiche», dice il politologo Piero Ignazi. E di conseguenza la Casa delle libertà col referendum ha perso definitivamente anche le elezioni. Questo vuol dire che in condizioni "normali" la Cdl non è in grado di scalzare il centrosinistra. La mobilitazione straordinaria di aprile, con la chiamata alle armi del Motore azzurro (i volontari o «mercenari» berlusconiani, secondo la contestata definizione di Prodi), insieme con la capacità berlusconiana di evocare pulsioni profonde con le tasse di successione, cioè con la "morte" fisica e metaforica evocata da un’imposta applicata su un evento luttuoso, avevano condotto il centrodestra a meno di un passo dalla vittoria. Il referendum sulla Costituzione ha riportato le cose alla normalità. Normalità vuol dire che il giudizio dell’elettorato si concentra non più sulla lotta fra il Bene e il Male, bensì sul giudizio fattuale riguardo al centrodestra e alle sue riforme. E anche sul progetto solidificatosi intorno all’"asse" costituito da Forza Italia e Lega Nord: che l’allegro falò di schede referendarie ha incenerito. Con ogni probabilità il distacco di oltre 20 punti al referendum segnala la fine del "forzaleghismo", il movimento che ha per ispiratore Umberto Bossi, per braccio politico e organizzativo Silvio Berlusconi, per ideologo Giulio Tremonti. In realtà non c’erano buone ragioni sostanziali per votare Sì alla riforma della Cdl. Anche i sostenitori più attrezzati culturalmente, fra gli osservatori, come Sergio Romano e Angelo Panebianco, avevano dovuto utilizzare criteri politici: il Sì a un impianto scalandrato come scelta a favore del riformismo costituzionale, per uscire dallo storico immobilismo italiano. Un sostegno a prescindere dalla qualità della riforma. «In realtà», commenta Franco Bassanini, «la riforma era avventurosa nei modi e avventuristica nei contenuti, con invenzioni costituzionali inesistenti nelle democrazie avanzate». D’altronde, anche gli studiosi che si erano pronunciati a favore della riforma, una stretta minoranza fra i costituzionalisti italiani (anche se comprendeva alcuni specialisti di prestigio come Carlo Fusaro e Giuseppe De Vergottini), si erano dovuti arrampicare sugli specchi, arrabattandosi fra un via libera politico e un giudizio costituzionalmente perplesso sulla «farraginosità» del processo legislativo previsto nel nuovo testo. E anche altri studiosi contigui alla destra avevano guardato con malcelata antipatia al processo contraddittorio di rafforzamento della forma di governo da un lato, e dall’altro allo sfarinamento del sistema politico provocato dalla legge elettorale proporzionale approvata dalla Cdl. Ma queste considerazioni sulla materia costituzionale ormai sfumano nell’insignificanza. La riforma promossa dai saggi di Lorenzago era un testo indecente, un malsano frutto politico del compromesso tra le componenti inconciliabili del centrodestra. La devolution alla Lega, l’interesse nazionale ad An, il rafforzamento della premiership a Forza Italia, il taglio dei parlamentari alla demagogia antipolitica che alligna in tutto il centrodestra. All’Udc era andato un compenso esterno all’ambito costituzionale, vale a dire la legge elettorale proporzionale. A questo punto si tratta di vedere su quale punto dell’alleanza agirà il crollo del progetto complessivo. Il primo terreno molle è ovviamente quello della Lega. Perché Umberto Bossi e il suo movimento politico avevano investito tutto il loro capitale sulla conquista della devolution, e ora si trovano nella casella di partenza. Il Nord ha votato No; le uniche soddisfazioni sono venute dalla Lombardia e dal Veneto. Questo risultato fissa l’ennesima smentita del teorema politico con cui Bossi ha "ricattato" per anni la politica italiana. Il leader leghista ha sempre giocato, con abilità manovriera, sull’idea che la Lega è un movimento d’avanguardia, e quindi minoritario; ma al momento buono, quando si fosse trattato di scegliere sulla materia fondamentale, l’autonomia, la secessione, tutto il Nord si sarebbe schierato a favore dello sfondamento leghista. Per la verità la Lega aveva fallito la "marcia sul Po" del 1996; aveva mancato la mobilitazione con le elezioni "padane" nei gazebo; si erano rivelati un bluff il "governo" e il "parlamento" insediati a Mantova e a Venezia. Ciò nonostante Bossi era sempre riuscito a vendere sul mercato politico il suo ruolo strategico, di ago della bilancia e di interdizione. Ma ora le invenzioni bossiane sono smentite dai fatti e dai numeri. L’Italia del Nord è un fenomeno assai più complesso di quanto non raccontino propagandisticamente i leghisti. E quindi per la Lega c’è il rischio immediato di ridursi a insediamento pedemontano, residuale, ma soprattutto di perdere la centralità che le aveva garantito rapporto privilegiato con Berlusconi. Nei prossimi mesi il tema delle riforme, e in particolare dell’approfondimento del federalismo, marcherà il passo. È probabile che l’equilibrio si sposti sul terreno politico, e in questo caso occorrerà seguire con attenzione le mosse dei centristi. Pier Ferdinando Casini ha già indicato la necessità di una riflessione dentro la Cdl. I gemelli del No, Follini e Tabacci, possono riguadagnare una posizione nel partito. Da questo punto di vista, l’Udc ha già messo di fatto sul tappeto la questione della leadership. Berlusconi infatti traballa. Psicologicamente è ancora fermo al giorno delle politiche, alla contestazione del risultato: sembra non essersi accorto che al di là del risultato di aprile, favorito da una drammatizzazione estrema e realisticamente irripetibile, arrivata fino al punto di quasi azzerare l’andamento storico del "partito delle schede bianche", il clima politico ha cambiato segno. È improbabile che in futuro la Cdl possa ripetere quella mobilitazione; inoltre le spallate non sono riuscite. Berlusconi non ha voluto impegnarsi fino in fondo nella campagna per il referendum, ma comunque con le fiacche apparizioni televisive negli ultimi giorni prima del voto ha offerto il suo volto alla sconfitta. Il centrodestra, secondo l’Udc, deve rimettere in discussione il proprio profilo; questo indurrà la Cdl a concentrarsi entro il perimetro dell’alleanza. Nello stesso tempo, anche il centrosinistra deve pensare ai problemi suoi. Nei due giorni del referendum la base dell’Unione ha raggiunto un livello di partecipazione e di impegno analogo a quello delle primarie: ma l’insoddisfazione per il comportamento della maggioranza e del governo serpeggia senza più censure. La delusione è emersa con nettezza negli incontri fra la base e i dirigenti dei partiti: e occorrerà vedere come i vertici di Ds e Margherita parleranno ai militanti che premono per accelerare il partito Democratico (a Roma, martedì 4 luglio, all’hotel Radisson, Piero Fassino e Francesco Rutelli potrebbero misurare con precisione l’insofferenza del "popolo" che spinge per la fusione nella nuova entità politica). In queste condizioni, immaginare una ripresa dell’iniziativa riformatrice sulla Costituzione sembra illusorio. Non tanto per le ragioni addotte dagli osservatori di destra, secondo cui il No era la pietra tombale sulle riforme, una briscola formidabile per i fondamentalisti dell’intangibilità della Carta. Piuttosto, per la ragione appena detta che entrambi gli schieramenti devono prima di tutto guardare all’interno. Anche la frammentarietà del centrosinistra infatti è un problema, che si riverbera sul governo, e influenzerà tutto il percorso che conduce alla legge finanziaria, cioè alla pesante manovra di risanamento di cui ha parlato con chiarezza il ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa, rendendolo ancora più accidentato di quanto già non si prospetti. Ma la situazione veramente eccitante è nel centrodestra: da un punto di vista oggettivo è finito un ciclo, si è esaurita una leadership, si è svuotato un progetto politico. Se l’Unione non consegna alla Cdl opportunità impreviste, nel senso di possibili autogol, anziché alla Costituzione Fini e Casini dovranno mettersi a pensare un’ipotesi nuova per il "partito dei moderati". C’è un’espressione che si attribuisce al generale Charles de Gaulle: «Il potere non si conquista, si raccatta». Occorrerà vedere se i due dioscuri, o più precisamente i due mezzi leader, della Cdl mostreranno di avere il tempismo per raccoglierlo. Certo, Fini ha succhiato troppo le ruote di Berlusconi, è stato un gregario opportunista. Casini ha un vantaggio tattico: erano stati proprio due eretici dell’Udc, Follini e Tabacci, a segnalare che l’asse Berlusconi-Bossi squilibrava gravemente la Cdl. Adesso che il programma forzaleghista non figura più all’ordine del giorno, si apre una di quelle opportunità che si presentano non più di una volta per ogni decennio. Chissà se c’è qualcuno che ha voglia davvero di provare a mettere insieme una destra normale. n

Facebook Twitter Google Email Email