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Tutti i santi Michele

11/05/2006

Dieci anni di articoli per "la Repubblica", l’impegno quotidiano di uno scrittore che si consegna al commento dell’attualità, pedina fatti e misfatti, grandezze e piccolezze, minuzie, inezie ed eventi colossali: il giornalismo è anche un modo per far finta di essere sani, e Michele Serra ha raccolto le sue malattie ricorrenti in "Tutti i santi giorni" (che esce in queste ore da Feltrinelli). I lettori riconosceranno la prosa apparsa nella rubrica "L’amaca", e diversi articoli di intervento sollecitati dalla cronaca. Ma letti a distanza di tempo i testi montati in questo libro acquistano un’altra intonazione, una tonalità che stupisce per coerenza e consequenzialità nel tempo. Vuol dire probabilmente che dalla cronaca nasce una filosofia. Basta leggere le prime pagine, inedite, dedicate a una mattinata qualunque, allorché l a radiosveglia diffonde nella camera da letto la voce di Roberto Calderoli, per capire che l’ottimismo che Serra giudica necessario per affrontare una giornata altrettanto qualunque è per la verità lo specchio del suo pessimismo: in ogni caso, di quel sentimento psicologico necessario per affrontare la realtà «quando la prima impressione del mondo è che i mostri ne abbiano preso possesso, sotto forma di ganze con la bocca rifatta che invadono il video, o dei bruti di fondovalle che incredibilmente fanno il ministro». Dopo questa ouverture, il libro è strutturato come una giornata tipo, con il lavoro, il mezzogiorno, il dopopranzo, la cena. Si diverte, Serra, a fare il reazionario, l’anticonsumista, l’antiamericano (prendendosela magari lateralmente con lo spugnoso pancake, da inzuppare con lo sciroppo d’acero, «un’orribile puccia melensa e stucchevole», «che era la sola cosa americana, assieme al baseball, fin qui giudicata inesportabile»). Solo che nel corso di una giornata qualunque si attraversano quasi tutte le mitologie contemporanee, dal "brunch" alla temperatura «percepita», al raffreddore da fieno dipinto come un fragello dal tg di turno, tra una fauna composta di «centrocampisti e veline», nell’infinito reality show in cui viviamo tutti, magari rabbrividendo. Sicché alla fine sembra del tutto adeguato lo schema sarcastico del «Mangiate merda: cento miliardi di mosche non possono sbagliare». Ma bisogna considerare che l’esercizio esorcistico di Serra, i suoi contravveleni sociopolitici, le sue dichiarazioni di opposizione sono in esplicita controtendenza, il frutto dell’atteggiamento disfattista dei «soliti moralisti di sinistra come me». Michele, ovvero la negazione perfida dell’euforia: «So che è un pensiero economicamente scorretto, ma ogni volta che i consumi calano non riesco a condividere del tutto il lutto generalizzato». È come se lo spettatore Serra vedesse davanti a sé uno spettacolo che capisce perfettamente ma di cui non condivide nulla. E allora, di fronte all’indicibile, alle porcate del calderolismo, fugge nel nonsense più di buonsenso: «Vedo con particolare favore un’invasione cinese della Padania. Sono maneschi come gli americani, ma hanno una cucina migliore». Perché forse una salvezza possibile è nello stupore, nello sbalordimento, forse addirittura nella catalessi percettiva. Serra commenta la crisi dei sondaggi (perché abbiamo attraversato anche la crisi dei sondaggi, dopo la fede nei sondaggi e ultimamente la sfasatura degli exit poll): «Più della metà dei sondati rifiuta di rispondere». E allora l’ammutolimento è forse l’unico modo per continuare a ragionare, e a scrivere.

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