Se qualcuno si chiederà chi ha cambiato la storia della televisione in Italia, la risposta dovrà mostrare pochi dubbi: Umberto Eco, per il modo di trattare l’alto e il basso, e naturalmente Beniamino Placido. Perché Placido, scomparso nei giorni scorsi dopo una lunga malattia, ha seguito la tv giorno per giorno, con pazienza e amore, cioè con l’assiduità dell’osservatore che osserva il proprio mondo e lo racconta al proprio pubblico. Un intellettuale che prende sul serio la televisione. Che ha alle spalle Roland Barthes ma non si vergogna di trattare la Carrà. Animale raro e senza troppi precedenti, o forse nessuno: soprattutto se si pensa alla routine a cui si sottopose per anni su "la Repubblica" scrivendo e commentando praticamente ogni giorno, in una rubrica televisiva diventata un "cult", cioè trasferendo l’effimero alla dignità dell’oggetto di analisi critica. Una cerimonia quotidiana che trasforma il teleschermo in un’occasione saggistica, e nella possibilità di utilizzare il materiale "basso" in un’opportunità "alta": ma senza darlo troppo a vedere, e senza farla troppo lunga. E poi "farla", la televisione, inventandola come può fare un intellettuale senza inibizioni, e quindi indifferente, fin che è possibile, alle leggi dell’audience. Erano i tempi in cui si poteva osare. Ecco allora uno scrittore piccolo e sofisticato che entra in scena, in una "Serata Manzoni", con i famosi capponi di Renzo, e parla, racconta, commenta. Con il suo accento meridionale inconfondibile, diventava immediatamente "il" personaggio: l’autore assurgeva al rango di protagonista, ma nel suo modo personalissimo, pieno di pudore, cercando sempre di far capire al pubblico che c’è una storia, uno stile, una vicenda che si può raccontare a tutti, grazie alla semplicità, a una cultura che non pretende nulla se non l’attenzione che si chiede, con gentilezza, a uno spettatore. Storie d’altri tempi? Di un’altra era televisiva? Ci voleva naturalmente una sensibilità particolare per indurre un intellettuale come Placido, di suo un anglista finissimo, per dedicarsi alla materia informe e continuamente cangiante della televisione. Come per un teologo dedicarsi intellettualmente alla folla amorfa dei peccati. Con il piacere quindi di trovare ogni giorno qualcosa di nuovo e col senso di colpa così gradevole di avere sfiorato o commesso qualcosa di indicibile o di inconfessabile. Mentre altri commentatori come Sergio Saviane erano diventati noti per il sarcasmo, Placido si era trasformato in un appuntamento quotidiano con un momento di humour e di cultura. Fin quando ha potuto, ha scritto di televisione con l’affetto che si ha verso il proprio lavoro, senza nessun razzismo culturale, cioè senza mai mostrare una distanza verso l’oggetto da trattare. La "televisione col cagnolino", come recita il titolo di un suo libretto, offre subito l’immagine di qualcosa di famigliare. Si prende la televisione al guinzaglio e ci si fa accompagnare nei dintorni di casa. Camminando di qua e di là, apparentemente senza scopo, anzi, andando "a zonzo" come si faceva una volta, ci si imbatte in belle novità, in cose strane, in facce inattese. È il mondo nuovo della televisione, con i suoi colori e con i suoi volti imprendibili. Per tanti finissimi intellettuali di allora, un mondo da evitare. Il male assoluto. Per un uomo come Placido, un universo affascinante: da entrarci dentro e da esplorare ogni volta con gioia, scoprendo sempre qualcosa di nuovo. Per questo va ringraziato oggi: per ogni incontro quotidiano, per la piccola e breve gioia di ogni giorno. Non è più nemmeno il caso di ricordare un "ruolo" culturale: basta ricordare l’affetto con cui scriveva, e il piacere con cui l’abbiamo letto. n
21/01/2010
ATTUALITA'
L'addio al critico tv