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Adriano? Più bollito che Molleggiato

03/05/2001

Cade, il presunto capopopolo cade. Era stato Eugenio Scalfari a coniare per Adriano una definizione carismatica («Celentano evoca l’indistinto e l’istinto», sostenendo che in futuro qualcuno avrebbe fatto tesoro della nuova dimensione politico-televisivo-populista creata dalla hybris del Molleggiato. Era il 1987. Ora il qualcuno è venuto allo scoperto, e a suo modo è anche più mitico e magico di Adriano, con le sue missioni e i suoi pilastri per rifare l’Italia. Perché una certa differenza, fra un monologo di Berlusconi e uno sproloquio di Celentano, alla fine c’è. Silvio è professionale, Adriano è sempre un dilettante. Berlusconi ha imparato a credere a ciò che dice, mentre Adriano, che alle sue idee galattiche e universali ci credeva da prima, ancora non riesce a dirle in maniera appena fluente. L’ultima storia, comunque, è questa. Hinterland lombardo, o come accenna Michele Serra, echeggiando Franco Fortini, un «rugginoso fuoriporta milanese». Località Brugherio, il giorno della famosa prima puntata. Si capisce che sui "125 milioni di cazz…te" i vertici della Rai hanno scommesso tutto, anche la faccia, vedendo il direttore di Raiuno Maurizio Beretta che prima dello show misura solo e pensoso le scalinate della platea, fra sbarre e inferriate "piranesiane", mentre il vulcanico organizzatore Bibi Ballandi stringe mani su mani passando fra il pubblico di idolatri con l’aria di uno che ha costruito l’evento del decennio. E infine l’adrenalinico (lo dice lui) Roberto Zaccaria che interpreta la parte del team manager, come se il programma del salvatore Adriano fosse opera sua e dei suoi boys: e quindi si divide fra la platea, diveggiando alla pari con Ronaldo e Massimo Moratti, e il set, facendosi fotografare con tutti gli operatori in divisa da secondini, raccolti intorno a lui con un’euforia da paddock di Formula uno. Vincere! Ma questa volta vincere è difficile, anche se i giorni seguenti sono la sagra del conformismo. Del programma di Celentano parlano bene tutti o quasi escluso ad esempio un perplesso Aldo Grasso ma compreso un estatico Dario Fo che scambiando il caz-show (definizione dell’inviata della "Stampa" Marinella Venegoni) per teatro d’autore dice che quel vecchio ligéra di Adriano ha stravolto i tempi della televisione, dilantandoli e facendo la rivoluzione. Un’operazione culturale «di grande raffinatezza». Ai tempi del famoso "Fantastico" del 1987, quello del figlio della foca, Norberto Bobbio aveva visto «un cittadino di serie B», Lucio Colletti «un mezzo analfabeta», Enzo Bettiza «un guitto ignorante e furbastro». Solo Giuliano Ferrara parlò dello show come di una lezione di tv, e vedi caso il direttore del "Foglio" è stato il protagonista passivo della fiction sul pomodoro transgenico, a cui ha collaborato anche Carlo Lucarelli per dare una dignità noir al demenziale. Giuliano Ferrara nella mini fiction transgenica ha fatto il morto, e lo ha fatto benissimo, con un realismo impressionante o espressionista, gli occhi spalancati, la faccia irrigidita. Ottimo il funerale sulle note rallentate di "Azzurro", in attesa di quello di Gad Lerner fritto sulla sedia elettrica, e delle esequie delle periferie annunciate già 35 anni fa con "Il ragazzo della via Gluck". Va da sé che la prima fiction era una cazzata deprimente, ma peggio è stata la round table a seguire tra Celentano, il Ferrara redivivo e Carlo Petrini, con i fan in platea raggelati e incapaci di riaversi fino ai titoli di coda (mentre anche l’audience andava in raffreddamento, anche se nessuno lo dice). Poi, Adriano è fortunato. Malgrado gli sforzi di Michele Serra, che alla fine della serata d’esordio si muoveva nervosamente in un angolo del set per essere poi abbracciato catarticamente dalla pleonastica Asia Argento, il livello qualitativo del programma sarebbe stato catastrofico, perlomeno se si prendeva sul serio la faccenda dei contenuti. Perché con Celentano non si fa spettacolo. Se si facesse spettacolo, bisognerebbe recensire: le robette di Antonio Albanese, paraletteratura cheap; il duetto con Gaber, e vabbè; gli tzigani di Romania, le solite violinerie etniche; le prostitute "vere" troppo mute, oltretutto interpellate sul quanto-col-guanto prima di attaccare a tradimento "Io non so parlar d’amore…", con uno straniamento mica male. È fortunato, celentano, di una fortuna schifosa, perché c’è sempre qualcuno che se la prende e lo prende sul serio. Il superpopolare ministro Umberto Veronesi scrive alla Rai che con un solo monologo Celentano ha buttato nella spazzatura anni di civiltà giuridica e civile sui trapianti. Soldi sprecati e parole «ottuse e irresponsabili». Così lui, Adriano, con un maestoso colpo di fortuna è tornato a essere un problema politico, economico, sociale. Da antico democristiano di sinistra Zaccaria opera i suoi speciosi distinguo a favore del cattolico di destra Celentano: e che diamine, uno show non fa informazione, al massimo produce opinione. E le opinioni si potranno lanciare e discutere, o no? Ma sì, si potrebbero discutere se fossero per l’appunto opinioni. Mentre il problema di Adriano è che ormai non ha opinioni. Strano, singolare, misterioso caso di guru dall’idea sbandante, di ideologo dall’ideologia col buco, di pensiero senza pensiero, Celentano si è sgonfiato perché non riesce nemmeno più a sostenere un argomento. L’Elefantino, il dottor Stranamore del transgenico, alla lunga avrebbe messo in seria difficoltà l’Ispettore Gluck e le sue confuse fobie alla mucca pazza. Perché il carismatico Adriano non ha convinzioni, ha solo sensazioni. E non diciamo, come Zaccaria, trattasi di spettacolo. Anche Enzo Jannacci precipita nell’equivoco e dice: «È l’unico artista bravo che abbiamo in Italia». Ma se di Arte & Spettacolo si trattasse, i critici dovrebbero fare capire al Re degli ignoranti che i mostri sacri hanno l’obbligo di un maggiore rispetto di se stessi. Quindi stilizzare le performance e i duetti, creare un velo di aura, sollevare un alone favoloso, trasformare l’evento in prodigio: e non buttarla sul trash, sul provinciale, sull’autoreferenziale (il trash andrebbe benissimo come materiale per il grande effetto comico, ma se è involontario lo svacco è assicurato, altroché sublimare la spazzatura: si fa la figura dell’"idiot", come lo definì David Bowie dopo un dialogo allucinante su guerra e pace). Macché: tutta l’attesa per lo show era e sarà concentrata su ciò che il carismatico avrebbe detto e dirà, sul suo non essere di destra né di sinistra «e sia ben chiaro, nemmeno di centro», sulla sua convinzione metapolitica di poter spostare quattro o cinque milioni di voti. Ma se poi deve, come sempre, rettificare, spiegare, tornare sui suoi passi, dare ragione a tutti, ripiegare nella categoria del guitto che lancia il sasso e ritira la mano, il gusto è scarso. Si parte sistemando George W. Bush e si finisce sperando che all’ultima puntata arrivi Roberto Benigni. Però con il pensiero nascosto che l’Oscar gli possa rubare la scena: come accadde con Teo Teocoli e Gianni Morandi, a "Francamente me ne infischio". Dura la vita, anche da carismatico: soprattutto quando tu predichi, e gli altri razzolano.

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