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Amarcord Dc

13/04/2000

Malgrado tutto, in area centrista c’è rimasto qualcuno che non vuole rifondare la Democrazia cristiana. E dire che Marco Follini, vicesegretario del Ccd, autore di approfondite esplorazioni dell’arcipelago dc, "moro-doroteo" per sua antica autodefinizione, poteva essere fra i protagonisti del remake. Invece il suo ultimo libro, "La Dc" (162 pagine, 18 mila lire), che esce oggi per i tipi del Mulino, è solo il requiem ispirato da «un dovere verso la nostra memoria, non ancora in pace». Con un ritratto della Dc, come specchio e guida del paese, capace di dire qualcosa anche alle mentalità più laiche e lontane dal cosmo politico cattolico. Ma si può davvero scrivere qualcosa di non scritto, sulla Dc? Per comprendere l’originalità della lettura di Follini conviene sovvertire l’indice del saggio e cominciare dall’ultimo capitolo: perché in quelle pagine, incombenti le metafore del processo pasoliniano («La Dc è un nulla ideologico mafioso») e del "Todo modo" di Leonardo Sciascia, c’è un tentativo inedito di spiegare le ragioni del crollo del partito-sistema, del partito-mamma, del partito-destino. Troppo meccanico, infatti, interpretare il crepuscolo dc con formule politologiche: certo, dopo il crollo del Muro, la sconfitta dell’"avversario cosmico", il Pci, implicava la fine della Dc come bastione, e quindi lo smarrimento «di una missione e di una sfida». Più interessante è osservare il contenuto antropologico, mentale, identitario, della crisi finale. A partire dall’apertura effettiva del Grande Processo, sotto i colpi del piccone cossighiano, sotto l’urto referendario, e l’impatto distruttivo di Mani pulite, la Dc semplicemente si rassegna: «Troppo debole per opporre al processo una politica; e troppo poco consapevole per opporvi una cultura». La Dc insomma «si lasciava andare». Non recitava l’atto di dolore sulle colpe, né tentava una rivendicazione dei meriti. Il partito era stanco: politicamente, ma soprattutto psicologicamente. Dato che il potere aveva surrogato il consenso, subì il fascino distruttivo dell’identificazione con l’aggressore: «Il tributo pagato al sentimento giacobino, il mito di una società civile buona e incorrotta, la vergogna e l’imbarazzo del potere e di una larga parte della propria storia». Con l’effetto di un’attrazione letale in cui «prendeva forma in maniera quasi inavvertita una Dc ansiosa di liberarsi da se stessa». Insomma un suicidio; o un’eutanasia. Comunque una liberazione. Una morte prolungata, in cui si decompone il partito-miracolo che aveva realizzato la coincidenza degli opposti. La Dc era stata, secondo Follini, il partito della società, dello Stato e della Chiesa. In ogni caso, irriducibile alle formule definitive come alle sintesi esclusive. Perché era un partito "doppio": composto per una parte dalla sua classe dirigente, toccata da bruciori ideali (Dossetti), da impazienze tecnocratiche (Fanfani e Mattei), dalla ricerca della mediazione (Moro); e per l’altra il partito del suo elettorato, cioè il popolo minuto, borghese, convenzionale, "doroteo", tragicamente deluso a suo tempo dal fascismo e spaventato poco dopo dalle ombre rosse di Togliatti. La doppiezza dc, unita alla sua vocazione al compromesso, entrò in sintonia con la doppiezza degli italiani: «Da un lato la faziosità, la partigianeria, il particolarismo, perfino la visceralità; dall’altro uno spirito più accomodante, una ricerca di senso comune, un bisogno di costruire argini entro cui lo scontro politico potesse trovare i suoi limiti». Era il partito "femmina", materno, indulgente, rassicurante; il cui ruolo in vesti maschili era tutt’al più quello manzoniano del conte zio e del conte duca, "troncare, sopire", con sapienze melliflue da volpe vecchia. Il processo finale ha messo allo scoperto tutte le facce della Dc: perso il mastice del potere, il partito-contenitore si è disgregato. «L’ultima assemblea democristiana decise all’unanimità che la Dc non esisteva più. Forse perché già da qualche tempo aveva preso a comportarsi come se, per l’appunto, non esistesse». Come ricorda Follini, il corrispondente di "Le Monde" Jacques Nobecourt aveva affermato: «La Dc non si definisce, si constata». Se non sapeva più esistere, non c’era nessuna ragione perché sopravvivesse.

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