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Anche i compagni divorziano

10/05/2007

C’è stato un momento speciale al congresso dei Ds, in cui l’emotività ha preso il sopravvento sulla politica. E in quell’istante molti hanno avuto la sensazione che la decisione di Fabio Mussi, e dei sottoscrittori della seconda mozione, di non confluire nel futuro Partito democratico fosse un eccesso di razionalità, quasi il frutto di uno schematismo. Poi, a congresso concluso, si è avuta la notizia dell’uscita dai Ds anche di Gavino Angius, che aveva lasciato il Forum Mandela di Firenze in posizione problematica rispetto alla segreteria e al processo di fusione con la Margherita, ma che sembrava orientato a non autoescludersi dal partito. Viene da chiedersi quali sono le ragioni che hanno impedito a dirigenti come Mussi e Angius di restare nell’alveo del Partito democratico. In tutte le esperienze della sinistra europea, accanto a posizioni moderate si sono espresse sovente anche linee più radicali. Quindi può destare un certo stupore che un gruppo di dirigenti, di parlamentari, di eletti nelle istituzioni territoriali abbandoni un partito come i Ds, cioè un partito strutturato, nel quale da tempo convivono orientamenti di differente ispirazione politica. Perché se ne vanno, allora, Mussi, Angius e tutti gli altri (fra i quali spicca simbolicamente la figura di Olga D’Antona)? In questi casi è facile cedere all’interpretazione più scettica, secondo cui con la nascita del Pd si apriranno a sinistra opportunità insperate, e la professionalità tecnico-politica dei dirigenti ex diessini li porterà a un ruolo estremamente significativo nei processi di ricomposizione della "sinistra-sinistra", in particolare rispetto alla galassia di Rifondazione comunista (che dopo l’ascesa di Fausto Bertinotti alla presidenza della Camera ha un deficit di visibilità sul piano della leadership). Ma nella realtà le cose non sembrano stare proprio così. Con l’abbandono dei Ds, i fuorusciti si troveranno nel mare magnum di una sinistra in rifacimento. Probabilmente privi di una vera struttura organizzativa, dotati di risorse economiche incerte, dovranno combattere a mani nude ogni giorno per conquistarsi uno spazio nel dibattito politico. Dunque le ragioni dell’esodo non appaiono affatto legate a una cifra opportunistica. È più probabile invece che al congresso di Firenze si sia consumata l’ultima tra le rotture che hanno afflitto la sinistra nel corso di un secolo. Ed è notevole, per certi aspetti, che la frattura sul Partito democratico avvenga nel nome di una visione "socialista", cioè su una concezione largamente ancorata al Novecento. Evidentemente, e sia detto come un riconoscimento, negli esponenti della sinistra italiana esiste ancora una serie di complessi simbolici che risultano determinanti nelle scelte politiche. Un legame, una fedeltà, l’ancoraggio a una tradizione e a una cultura. Tutto questo attesta non soltanto la consapevolezza, bensì anche la nobiltà e la perfetta buona fede delle scelte. Soprattutto se si pensa alla centralità pubblica che assumerà nei prossimi mesi l’evoluzione del Partito democratico, alle discussioni che ne seguiranno, alle opportunità di conquistare cariche di rilievo. Mussi e i suoi compagni di avventura entrano invece in un orizzonte dominato dall’incertezza. Ci sono a sinistra una serie di cantieri aperti, ma i cui lavori non sono ancora effettivamente cominciati, e che non si sa a quali risultati condurranno. Si parla già ora di due sinistre (il Partito democratico più vicino al centro e l’arcipelago della sinistra "non-moderata"), ma per la verità al di là del Partito democratico le sinistre sono più d’una. Infatti a fianco di Rifondazione, che sta attraversando un periodo di profondo riallineamento ideologico, rinunciando di fatto al suo codice genetico comunista, c’è il cantiere della possibile ricomposizione socialista, imperniata sullo Sdi di Enrico Boselli e sulla partecipazione di esponenti di lungo corso riformista come Lanfranco Turci, mentre rimane da osservare quale sarà l’evoluzione dei Verdi e dei Comunisti italiani. Per ora quindi prevale la sensazione di una notevole precarietà. Mussi, Angius e gli altri se ne sono andati per mantenere un legame fra le proprie scelte e un assetto politico di riferimento. È improbabile che possano avere successo, e la loro scelta complica e complicherà la vita a tutto il centrosinistra. Ma è una scelta dettata da una volontà di coerenza, dal riferimento a un codice politico. Di fronte ai trasformismi della postpolitica, tanto vale riconoscere la bontà delle intenzioni, con l’augurio che la strada lastricata in modo così ammirevolmente "vintage" non porti come nelle peggiori tradizioni in una direzione infernale.

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