Se non altro si può dire che Giovanni Minoli è uno a cui piacciono le partite difficili. Ad esempio sfidare il canonico Bruno Vespa della seconda serata con i filmati di "La storia siamo noi". Visto l’instant movie "Quella parte di anima chiamata corpo: il calvario di Karol Wojtyla", di Stefano Rizzelli (Raidue, 7 febbraio) ed eccone una valutazione sommaria. Produzione di difficoltà micidiale, sesto grado superiore della tv contemporanea, triplo avvitamento carpiato. 1. Perché il calvario del papa è ovvio, sotto gli occhi di tutti. 2. Perché a parlare di anima che è corpo e viceversa c’è il rischio di sfiorare i territori new o post age di Gabriele La Porta. 3. E anche perché il potenziale emotivo garantito dalla personalità di Giovanni Paolo II è stato sfruttato in ogni modo, con tutte le immagini e con tutte le parole possibili. Quindi è difficile essere originali e convincenti insieme. Minoli ha fatto un mezzo miracolo, con tecniche borderline. Ha preso le immagini più suggestive, le espressioni più clamorose, l’affettuosa confessione di Wojtyla «ecco qui un papa un po’ deficiente», le escursioni in elicottero, i bambini nascosti per gioco sotto la veste rossa, i baci sui capelli delle donne, gli abbracci ai minatori sudamericani, l’ammonimento ai preti nicaraguegni, la sofferenza quotidiana mostruosa, il dolore e il Parkinson, e ha costruito una "testo" credibile e narrativamente compiuto. Sotto, ci ha messo qui una musica heavy metal, là qualche coro che assomiglia ai "Carmina Burana" di Carl Orff, talvolta la chitarra di The Edge, insomma la musica velocissima degli U2; e dentro ci ha piazzato un montaggio che qualche volta assomiglia alla "Passione" di Mel Gibson. Come risultato, un effetto choc continuo, visivo ed emozionale. Ora Wojtyla sembra una rockstar, ora un uomo percosso mortalmente dal dolore, ora un sacerdote che attende il suo destino incommensurabile. Insomma, un tentativo piuttosto efficace di essere colto e popolare, scomodando insieme la teologia del cardinale Ratzinger e le aspettative dell’audience. (E forse è anche uno dei possibili modelli di come si possa fare una tv rapida, veloce, puntuale, sostanzialmente moderna con le invenzioni del postmoderno: in fondo, Michael Moore ha insegnato qualcosa a tutti, anche a Minoli e ai suoi. Non è un peccato: Dio non ha imposto a nessuno di essere noioso, neppure alla tv di qualità).
24/02/2005