Forse il cavallo Barbaro ce la farà, grazie alla chirurgia, alla tecnologia e alle preghiere di cento milioni di americani, compreso il presidente George W. Bush. Il "superhorse", lo strepitoso purosangue imbattuto che aveva trionfato nel classico Kentucky Derby e che domenica 21 maggio si era spezzato una zampa (o meglio una gamba secondo il lessico ippico), alla partenza di una gara nel Maryland, ha sopportato l’operazione che con un’imbragatura di titanio e acciaio gli ha rimesso insieme lo stinco, l’osso pastorale e il sesamoide della posteriore destra. Dean Richardson, il primario della Clinica veterinaria dell’Università di Pennsylvania che ha operato l’arto spezzato in più di venti frammenti, si era dimostrato cautamente ottimista già dai primi giorni dopo l’intervento. Ma questa è semplicemente la vicenda clinica di un animale. L’altra storia è quella di un’America che trepida per la bellissima bestia che aveva visto interrompersi la sua corsa sulla soglia della morte. Una possibile allegoria della conquista americana, con Barbaro che incarnava il mito dei mustang nel West; e il galoppo che si fermava nel dolore folle dell’osso frantumato poteva anche suggerire auspici spaventosi per l’intera America, ossa gemelle spezzate da un destino nemico. L’ultima storia invece non parla soltanto di un cavallo, ma racconta com’è cambiato il rapporto con gli animali. Il rapporto del mondo ultramoderno, tutto artificiale, con il mondo della naturalità, con l’essenza vivente, con il fattore animale. Proprio così, fattore umano e fattore animale a confronto, in una relazione via via più complessa e forse mai del tutto descrivibile. Negli Stati Uniti, territorio marcato dalla modernità materialista, sono censiti cinquanta milioni di cani nelle famiglie, e altrettanti gatti. Ma se dalla statistica si passa alla filosofia, vale la pena di riprendere l’opus magnum di Martha C. Nussbaum, "L’intelligenza delle emozioni", tradotto dal Mulino nel 2004, che agli animali dedica un capitolo aperto da "stories" clamorose: il piccolo Flint, figlio della scimpanzé Flo, che dopo avere assistito con immenso stupore alla morte della madre rimane accanto al cadavere, lo veglia, non mangia più e si lascia morire di stupefatto dolore. La storia degli studiosi George Pitcher e Ed Cone, che «stavano guardando la televisione, una sera, nella loro casa di Princeton: un documentario su un ragazzino inglese con un disturbo cardiaco congenito. Dopo molti alti e bassi, il ragazzo morì. Pitcher, seduto a terra, si ritrovò gli occhi pieni di lacrime. Immediatamente i loro due cani, Lupa e Remus, saltarono su di lui, facendolo quasi cadere, e gli leccarono gli occhi e le guance con tristi guaiti». «Gli animali provano emozioni», annota la Nussbaum, che con semplicità ma senza nascondere una poderosa documentazione filosofica propone una visione «neostoica» dell’interazione fra uomo e animale, per giungere a una concezione degli animali come titolari e portatori di diritti. E lo fa con molta forza anche nel recentemente pubblicato negli Stati Uniti "Frontiers of Justice: Disability, Nationality, Species Membership". A questo punto si potrebbe ironizzare sulle invenzioni zapateriste, leggi e diritti per i grandi primati. E invece è il segno che si è aperta una fase nuova, oppure antichissima, nel faccia a faccia tra le specie: in cui la separatezza fra l’homo sapiens e i suoi predecessori sul pianeta Terra, o nella comunità vivente di Gaia, mostra varchi insospettati, anche se "sentiti" dagli animi più puri, sentimentali, selvaggi. Il che ha implicazioni rilevanti nella vita quotidiana. Non tanto per il gossip che ha allargato il proprio raggio anche alla zoologia (la labrador nera di Massimo D’Alema, Lulù; il labrador biondo del direttore del Tg5, Carlo Rossella; il bassotto di Giuliano Ferrara, eccetera), quanto per il diffondersi di una concezione "non nichilista" e non utilitarista del rapporto fra differenze. Sembra infatti che in una concezione postmaterialista gli animali non possano più essere considerati bestie da soma o carne da macello: anche prescindendo dalle correnti culturali animaliste e dai loro veti alimentari e comportamentali, resta comunque il fatto che l’affermarsi di una cultura "sostenibile" interpella spesso con radicalità la coscienza contemporanea. È sostenibile infatti la grande ecatombe di suini, bovini, polli, volatili e pesci su cui è basata l’alimentazione di massa? Si tratta di una domanda che può apparire provocatoria. Ma chiunque conviva nella propria casa con un animale qualche domanda del genere è indotto a farsela. Ha imparato a spiare il cane o il gatto, a interpretarne umori e dolori, felicità astruse, scodinzolii, malinconie e guaiti; e talvolta gli è sembrato che quella barriera che si alza fra le specie sia permeabile, che alcune parole e certi gesti filtrino fra intelligenze diverse, creando qualcosa che assomiglia a una comunicazione, a un rozzo, ma anche variamente sofisticato, alfabeto delle emozioni. E dunque "rilegge" con una consapevolezza ulteriore l’atteggiamento verso gli animali, come pure i riflessi che il mondo animale getta sulla produzione di immaginario. Film, romanzi. Non tanto le varie e ripetute epopee semi-erotiche di King Kong, quanto i grandi "romanzi" della psicologia animale, il progetto lungo il quale Allen e Beatrice Gardner hanno insegnato l’Ameslan (il linguaggio gestuale americano per i sordi) alla femmina di scimpanzé Washoe e alla femmina di gorilla Koko: progetto che ha trovato il suo epos nel bestseller di Michael Crichton "Congo". Per il resto, non passa giorno senza che vengano pubblicate notizie sulle modalità lessicali e comunicative di scimmie, balene, delfini. Nuove scoperte antropologiche mostrano che per un milione di anni i grandi primati sono stati contigui, senza distinzioni fra l’abbozzo di specie uomo e il suo convivente scimmia. A queste osservazioni etologiche fa da contrappunto il rilievo simpatetico che assumono certe curiosità cronachistiche, come quelle relative a "Chico", presunto gatto di Benedetto XVI, forse una leggenda (ma non è una leggenda la passione di papa Ratzinger per i felini; e non ci sarebbe una novità in Vaticano se è vero che anche Paolo VI portò nell’appartamento papale il suo bel gattone). Ma c’è anche il dibattito che di recente ha investito l’apparato teologico del cristianesimo, a partire dal discusso libro di Andrew Linzey "Teologia animale" (edizioni Cosmopolis). La nuova prossimità con gli animali avrà pure dato luogo al boom commerciale di prodotti specifici, ma soprattutto a un appariscente cambio di paradigma mentale: oggi infatti ci si stupisce di più al pensiero dell’atteggiamento ottocentesco e novecentesco, che incorporava le battute di caccia grossa e il grande massacro degli animali, che non di fronte al sentimento di vicinanza, o di convivenza, con le bestie. Ma è un sentimento, una condivisione, che viene da lontano e appartiene alla memoria dell’umanità. Viene dal paradiso terrestre, prima del frutto proibito. Ma c’è anche in epoca storica: ancora la Nussbaum racconta che nel 55 avanti Cristo il generale romano Pompeo organizzò un combattimento tra uomini ed elefanti. «Accerchiati nell’arena, gli animali capirono di non avere alcuna speranza di fuga. Allora, secondo Plinio, essi cercarono di attirarsi la compassione degli spettatori con atteggiamenti indescrivibilil, e li supplicarono come piangessero la propria sorte con una sorta di lamentazione. Gli spettatori, mossi a pietà e rabbia dalla loro situazione, si alzarono a insultare Pompeo: sentendo, scrive Cicerone, che gli elefanti hanno "qualcosa in comune" con la razza umana». Qualcosa in comune: l’emozione, la paura, l’irrequietezza, il dolore. Il vaticanista Filippo Di Giacomo dice che avverte ancora un brivido quando ricorda il funerale di Raymond Dupas, il parroco che reggeva il seminario di Malole a Kananga (nel Congo), e aveva accompagnato nella formazione sacerdotale il giovane Albert Malula, destinato a diventare il primo vescovo africano. In quei lunghi pomeriggi africani, il parroco Dupas amava accudire la tribù dei suoi animali: sei cani, e poi vari pappagalli che imitavano la sua voce, perfino la sua tosse, e quando lo vedevano gli cantavano l’inno nazionale congolese. Senza contare i gatti, i tacchini, i polli, i colombi, due manguste. Allorché il carro funebre si avvicinò al rettilineo davanti al seminario, tutta la tribù animale si sollevò sulle zampe, alzò la testa, e cominciò un lamento corale, ciascuno con il suo verso, un pianto che non si interruppe se non quando l’auto con la bara attraversò i padiglioni e raggiunse il cimitero, fuori dalla vista di quelle bestie "amiche". Una storia africana, un’immersione sconfinata in una natura priva di barriere. Ma anche una storia che a suo modo illumina quella del purosangue Barbaro, delle scimmie Washoo e Koko, e anche molti interni domestici delle nostre città così artificiali, così innaturali, così bisognose di verità animale. n
15/06/2006