Ma in Emilia Romagna c’è un buon lavoro da fare
Giungono da Bologna, in questi giorni, notizie politiche che possono far correre il rischio di porre in secondo piano gli aspetti programmatici delle imminenti primarie del Pd emiliano-romagnolo. Ma è la dura realtà dei fatti, con l’economia che non riparte e le diseguaglianze che crescono, a imporre passata l’emergenza di queste ore di ripartire proprio dall’agenda economica. Può l’Emilia-Romagna rappresentare un buon banco di prova per iniziare a cambiare davvero le cose anche in periferia? La risposta deve essere un deciso e risoluto “sì”.
Già i dati economico-sociali di fondo (Pil, tassi di occupazione, esportazioni, prestazioni sociali, indici sulla qualità della vita, etc.) collocano, nel paese, l’Emilia-Romagna sempre fra le primissime della classe: tendenzialmente, fra le prime tre.
Bastano però queste performance per parlare di un “modello emiliano”? Di più: di un modello che, nato e consolidatosi negli anni ’60 e ’70, è riuscito a resistere all’onda d’urto della globalizzazione?
No, non bastano giacché vi è qualcosa di più profondo che da decenni sollecita l’attenzione di politici, imprenditori e studiosi su quella che Edmondo Berselli, in un suo brillante libro, chiamò: Quel gran pezzo dell’Emilia (Mondadori, 2004).
Non accidentalmente, “Emilian Model” è un’espressione ricorrente nella letteratura economica e sociologica internazionale, mentre non accade la stessa cosa per altre regioni italiane di eguale, o anche superiore, stazza economica.
Due cose hanno da sempre attirato l’attenzione degli studiosi stranieri: la diffusione e la vitalità dei distretti industriali (o clusters, “grappoli d’imprese”), capaci di raggiungere l’efficienza economica mediante un raffinato meccanismo di cooperazione-competizione fra piccole e medie imprese. E l’elevata dotazione di “capitale sociale”, che ha generato un clima di fiducia reciproca e una comunità di persone legata da vincoli che trascendono la sfera dell’economia (si pensi alla reazione corale dopo il terribile terremoto del maggio 2012).
Le domande da porsi, giunti a questo punto, divengono: successi del passato a parte, quali sono oggi le caratteristiche distintive del “modello emiliano”? Ancora: quali le scelte prioritarie di policy per assecondare la sua trasformazione negli anni della sfida asiatica? Infine, qual è la direzione verso cui tendere per dare coerenza alle riforme?
Quando, un paio d’anni fa, ho pubblicato i risultati di un progetto di ricerca sulla Metamorfosi del “Modello emiliano” (Il Mulino 2012), sono partito da una citazione di Horst Siebert, per lunghi anni consigliere economico dell’ex Cancelliere Kohl: «La Germania ha un’economia aperta con una robusta base industriale, il cui Pil è per circa un terzo destinato all’esportazione. Si tratta anche di un’economia in cui il welfare e lo Stato giocano un ruolo dominante». È una descrizione che, fatte le debite proporzioni, s’attaglia molto bene all’Emilia-Romagna, anche se non sono poche le cose che la dividono dai grandi Laender manifatturieri tedeschi
. Qui risiede la sfida dei mesi a venire; una sfida che se affrontata con coraggio e visione in questo doppio passaggio (primarie del Pd ed elezioni regionali di fine novembre) può suggerire qualcosa di utile al paese nel suo insieme.
Due spunti fra i tanti possibili. L’Emilia-Romagna, a quindici anni dal lancio dell’euro e a sei dallo scoppio della grande crisi, ha saputo conservare una forte base manifatturiera con una spiccata vocazione all’export (è la prima regione italiana per esportazioni pro capite). Importanti aziende tedesche, giapponesi e americane hanno investito, e stanno tuttora investendo, a Bologna e dintorni nella meccanica di precisione, la regina della manifattura emiliana.
Di più: quelle tedesche hanno appena avviato programmi di formazione in azienda, proprio sul modello del vocational training così diffuso nella loro terra d’origine. E ancora: va a merito della giunta regionale presieduta da Vasco Errani l’aver avviato importanti programmi sia nel campo dell’Istruzione e Formazione tecnica superiore (la “Rete Politecnica”), sia della ricerca applicata (i “Tecnopoli”).
L’originale modello tedesco a supporto della manifattura di qualità verso cui guardare, rilanciato da Romano Prodi in un suo recente editoriale sulla nuova politica industriale (Il Messaggero, 22 giugno), si articola nelle “Fachhochschulen” e nel “Fraunhofer”. Ebbene, quanto manca all’Emilia-Romagna per implementare su scala regionale una diffusa rete di istituti “alla tedesca”, che completi le necessarie iniziative-pilota?
Per un disegno di questo tipo sono richiesti ingenti mezzi finanziari. Ecco allora il secondo esempio: ha ancora senso che, in Emilia-Romagna (come nel resto del paese), centinaia di società “commerciali” (fiere, aeroporti e autostrade, alberghi e terme, quote nelle multiutilities, ecc.) appartengano tutte e direttamente alla mano pubblica? Il governo Renzi intende ridurre, nel paese, queste società da oltre 10.000 a meno di 1.000: obiettivo sacrosanto.
Perché la regione Emilia-Romagna non prova ad anticipare una parte dei provvedimenti governativi dando avvio, all’inizio della prossima legislatura, a un grande programma di privatizzazioni, accorpamenti e chiusure, destinando gli introiti agli investimenti in conoscenza (ricerca, tecnologia e capitale umano)?
Rispondere a queste due domande potrà, crediamo, contribuire a consolidare la spinta riformista che il Pd sta cercando di imprimere al paese.