Cinquecento persone. Forse mille. Accorse a Lugano davanti alla casa dell’esilio di Carlo Cattaneo per rivedere l’Umberto. È stato un rientro importante, quello di Bossi, anche se le sue condizioni rivelano la gravità della malattia che lo ha colpito e mostrano che il suo futuro politico è ancora problematico. È una rentrée significativa perché senza il leader, il capopopolo, il "guerriero ferito", senza il corpo e l’immagine del capo assoluto, la Lega non sarà finita, esaurita, defunta, ma sarebbe come minimo un’altra cosa. Difatti i militanti, nell’emozione del momento, tendono a mischiare i piani della politica e della mitologia. Al punto che la pasionaria Rosi Mauro esclama: «Bossi è immortale, è un Highlander!». A metà fra l’esaltazione e una fantasia, si tocca un punto cruciale. Il Carroccio non esiste senza il carisma di Bossi e senza le leggende che lo avvolgono. La Lega per mobilitare ed emozionare i suoi militanti deve poter ricorrere ai parafernalia nordisti, alle memorie celtiche, a Braveheart, all’"invenzione della tradizione" (secondo lo schema di Eric Hobsbawm) che consente di accedere a un repertorio, ancorché storicamente problematico, di simboli. Sotto questa luce celtica, conta poco la politica romana. E a riascoltare Bossi si direbbe che anche la "devolution" è robetta, una derivata giuridico-burocratica. Nonché il risultato delle mediazioni dentro l’alleanza di centrodestra. Un federalismo che verrà, con i tempi lenti della trasformazione istituzionale. Ma nel frattempo incalzano i tempi della politica effettuale, le elezioni regionali, le politiche del 2006. Bossi sa che la Lega non è mobilitabile sulla proposta o sul programma, bensì sull’identità. Per tenere alto il morale della base, in questo momento è necessario esibire ancora e sempre le ragioni profonde del leghismo. Quali siano queste ispirazioni profonde è presto detto. L’anima autentica del Carroccio è legata intimamente all’idea della secessione. La Lega è secessionista nella sua essenza. È vero che l’utopia politica del Grande Nord che saluta "los italianos" e se ne va a raggiungere paesi e regioni felicemente alpini come la Svizzera e la Baviera non è più all’ordine del giorno dell’azione politica: fra i numeri due, Roberto Maroni si muove su territori come le pensioni e il mercato del lavoro, Roberto Calderoli si aggira dentro i commi della riforma costituzionale, l’Asse del Nord con il fratello di sangue Giulio Tremonti è una nozione sostanzialmente nostalgica, un "idem sentire" messo sullo sfondo dalle urgenze del governo. Eppure la psicologia della Lega è intimamente legata a quei momenti così accorati in cui a Lugano Bossi chiede un applauso per i Serenissimi, quelli che conquistarono il campanile di san Marco, e più ancora alle parole squisite con cui il capo allude alla radice vera e struggente del Nord: «La Padania e la Svizzera insieme sarebbero davvero lo stato più bello d’Europa». Da un lato si assiste così a una scena in cui il Carroccio appare come un’azienda a conduzione familiare, con la moglie Manuela e il figlio nella veste di custodi del patrimonio leghista. Dall’altro, lascia impressionati l’atmosfera crepuscolare in cui una élite politica continua, se non ad agitare, perlomeno ad alludere a progetti esorbitanti. Ilvo Diamanti ha definito la Lega come il partito "degli uomini spaventati": intimoriti dalla globalizzazione, dai processi immigratori, dalla concorrenza internazionale, dalla crisi dell’apparato industriale. Probabilmente si aggiunge a tutto ciò il lungo spavento della malattia di Bossi, e la paura che la Lega possa rivelarsi una entità residuale, un subaffitto folk della Casa delle libertà. In queste condizioni, la riapparizione di Bossi dovrebbe equivalere a una rinascita. Riparte l’avventura, ricomincia il film di "sword and sorcery" di cui il capo dei celti era stato il protagonista. Spadoni vichinghi e stregonerie lombarde, elmi e corna, favole e dietrologie, governi e parlamenti padani, e soprattutto politica a man salva. Purtroppo per lui, il guerriero è l’ombra di se stesso, Braveheart è lontano, e la Lega è l’alleato comodo di Silvio Berlusconi. E il movimentismo leghista, di fronte alla "Lega di governo" sembra soprattutto un ricordo dei tempi andati.
17/03/2005