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Berlusconi bocciato agli esami

13/11/2008

L’Onda sarà pure anomala, avrà messo insieme studenti e professori, matricole e baroni, genitori e bambini, suore e mangiapreti. Comunque, «la scuola è il primo vero intoppo nella gioiosa macchina da guerra del governo» (parole del direttore del "Riformista", Antonio Polito, in una nota non firmata, venerdì 31 ottobre). Viene da dire: finalmente. Finalmente si incrina il mito del consenso universale e nordcoreano del "caro leader" Silvio Berlusconi, con i suoi sondaggi autodefiniti «imbarazzanti» per troppo consenso, e i ministri e le ministre della Real Casa proiettati nell’empireo dell’adorazione di massa, come in una versione ultramediatica dell’Argentina di Evita Perón. "Don’t cry for me, Italietta…". In realtà, il consenso alle stelle apparteneva alla categoria delle favole belle. O meglio: quando si parla di consenso conviene guardare al domani e al dopodomani, non solo all’istantanea offerta dai sondaggi. Perché il consenso è una materia volatile, shakespeariana, fatta della sostanza di cui sono fatti i sogni. Uno crede di averli afferrati, e quelli si dissolvono, lasciando le mani annaspanti nel vuoto. Ora non è detto che la protesta nelle scuole, nelle università e nei centri di ricerca rappresenti un’inversione di tendenza, anche perché il mondo degli insegnanti è uno dei santuari del voto "democrat", che i ministri del Pdl vogliono pressare (come ha scritto sul "Corriere della Sera" Angelo Panebianco). Ma intanto si è visto che non tutta la società italiana è disposta ad accettare la fiction di regime secondo cui ci sono alcuni eroi, come per l’appunto Brunetta e la Gelmini, Tremonti e Sacconi, a capo dell’Italia buona e per bene, che combattono a colpi di spada contro le infingarde forze del male. Che sono poche e malcerte, così come su un altro fronte sono pochi e irrilevanti i poveri, quelli della "social card": altro che i 15 milioni censiti dalla Caritas sul filo della povertà. Ma le cifre sono sempre oggetto d’arbitrio. I poveri, poi, figurarsi, nell’Italia dell’euforia "de destra" e dell’intrattenimento elettronico: entità irrilevanti. Invece, non appena si è toccato un argomento reale il riformismo del Pdl si è sgonfiato. Si è infranto l’incantesimo. E comincia a venire fuori una verità alternativa: il blocco berlusconiano non ha una cultura per far fronte alla crisi. Aveva un progetto politico chiaro, per chi voleva vederlo: accorpare rapidamente un blocco sociale di interessi costituiti, legati alle imprese, alle professioni, al lavoro autonomo, per costruire una maggioranza permanente, unificata al livello delle élite dal gusto del potere e, su un piano più popolare, cementata dall’ipnosi televisiva. In tempi normali, la formula appariva irresistibile. La tonalità del discorso pubblico del governo era assicurata dai suoi elementi di punta. Contava poco che l’impostazione economica di Tremonti fosse in conflitto con quella del ministro della funzione pubblica Brunetta. Tremonti, l’uomo del «Dio, patria e famiglia» era l’apocalittico suscitatore di paure, l’uomo che con le sue doti divinatorie aveva "profetizzato" la crisi finanziaria mondiale, la «tempesta perfetta», mentre Brunetta, soltanto sette mesi fa, in marzo, sosteneva in un’intervista al "Tempo": «La crisi dei mutui subprime americani è un falso storico. L’Europa non sarà investita…». In sostanza è una crisi gonfiata ad arte?, lo stuzzicava l’intervistatore, Alessandro Usai. E il futuro ministro della Pubblica amministrazione: «C’è sotto qualcosa. Indubbiamente. Una banca non può fallire per i mutui subprime». Conclusione: «Tremonti filosofeggia». Ottimo, forse converrebbe dirlo, oltre che a Tremonti, alla Lehman Brothers. Ma ciò che contava era che, non avendo una cultura coerente alle spalle, il Pdl si affidava tutto alle fissazioni dei suoi attaccanti più abili. A cominciare da Tremonti per la gestione dell’economia, con un programma fatto praticamente soltanto di tagli, in una condizione economica già depressiva. Grandi strilli, e trilli, di soddisfazione, anche fra i cosiddetti poteri forti, a cominciare dalla Confindustria per avere approvato la legge finanziaria in nove minuti e mezzo; nessun giudizio sul merito, cioè su una manovra che rischia di peggiorare in misura significativa le condizioni del Paese, spingendo all’ingiù l’economia durante un ciclo economico gravemente negativo. «Può darsi che Tremonti sia un genio visionario», dice l’ex ministro prodiano Giulio Santagata, «e che davvero abbia visto nei minimi dettagli la crisi in arrivo. Ma allora avrebbe dovuto fare una manovra diversa, o mi sbaglio? E adesso che la tempesta è qui fra di noi, magari cambiarla, la Finanziaria, o no?». In casa Pd sono restati a lungo ammutoliti, quasi storditi di fronte al crescere spettacolare del consenso per il governo. Soltanto adesso ci si rende conto che qualcosa sta cambiando. Perché fino a qualche settimana fa l’azione quotidiana di annunci del governo non aveva contrasti. Funzionava l’effetto "format", che come in un reality televisivo vedeva da una parte i solerti ministri berlusconiani, scatenati contro le ingiustizie e gli sprechi, e dall’altra le caste, le nicchie di neghittosità e pigrizia, i fannulloni, i sabotatori: non c’era partita. Vittime inconsapevoli di questo schema manicheo, gli italiani si identificavano con i buoni contro i cattivi. Tutto questo ha retto finché è rimasto sul piano delle parole. Ma non appena sono seguiti i fatti, la situazione è cambiata, prima insensibilmente, poi in misura più visibile. Il favore popolare si è fatto leggero, parente stretto del «consenso senza fiducia» identificato da Ilvo Diamanti per descrivere i successi virtuali di Silvio Berlusconi. Allorché intere categorie sociali si sono sentite toccate direttamente dalle azioni, o dalle minacce, del governo, l’indice di gradimento si è afflosciato. «È accaduto qualcosa che in realtà assomiglia molto a ciò che avvenne con la prima Finanziaria del governo Prodi, quando si cominciarono a vedere i contorni e gli effetti del risanamento di Padoa-Schioppa», commenta il pd Enrico Letta: «Quindi oggi non si protesta contro la riforma della scuola, perché non esiste nessuna riforma; si protesta contro i tagli di spesa, che il governo ha coperto con la propaganda». Cioè con i grembiulini, il voto in condotta, il maestro unico, e le più enfatiche e sospette dichiarazioni sul mantenimento del tempo pieno. Non è un caso che di fronte alla sollevazione delle scuole Berlusconi abbia giocato subito la carta della politica, puntando il dito contro i «facinorosi» che strumentalizzerebbero e manipolerebbero i poveri studenti desiderosi solo di imparare: è la classica mossa che serve per mobilitare le maggioranze silenziose, consegnando la protesta a un settore caratterizzato da una preconcetta ostilità antigovernativa, cioè alla sinistra. Tuttavia questa volta il contropiede non è riuscito. Soprattutto per ciò che agli studenti e ai genitori, ai docenti e ai ricercatori è sembrato chiarissimo, e cioè che il governo dice in pubblico cose che sono smentite o non esistono nei documenti, cioè nei dispositivi di legge. Ma ciò che conta di più è che progressivamente interi ceti hanno avvertito una pressione e hanno cominciato a strillare. Una volta è il caso dei "tornelli" per l’ordine giudiziario, un’altra è la dichiarazione di Brunetta per cui gli insegnanti guadagnano troppo, gettando lunghe ombre sulle aspettative di un eventuale miglioramento economico. Ma soprattutto, e più in generale, comincia a farsi strada la sensazione che il governo non sia in grado di fronteggiare con sicurezza l’incubo, cioè la recessione. Su questo punto si giocano molte partite, non tutte chiarissime. Il Pdl si porta dietro i sorrisi berlusconiani, l’ottimismo della ricchezza per tutti. Ma al momento, non è chiaro quale sia la strategia economica del centrodestra. Non si vede un complesso di misure per dare impulso ai consumi, colpiti da una flessione che, come rivelano i dati della Confcommercio, si fa sentire soprattutto sui piccoli esercizi commerciali, tradizionale riserva elettorale conservatrice. È per questo che, in modo piuttosto singolare, ora con una dichiarazione di striscio, ora con una critica di sbieco, è cominciata a entrare in tensione nel centrodestra la figura del suo principale ideologo, Giulio Tremonti. Qualcuno nel Pd assapora già il disastro, ricordando la caduta del ministro dell’Economia nella legislatura berlusconiana, allorché Tremonti, messo alle corde dal "subgoverno", cioè An e Udc, fu costretto alle dimissioni e sostituito per 15 mesi da Domenico Siniscalco. «Questa volta non possono permetterselo», dice Letta, «Tremonti è la figura garante della politica economica rispetto all’Unione europea». Ma nello stesso tempo, aggiunge Matteo Colaninno, ministro ombra del Pd, non si riesce a capire la ragione di certi atteggiamenti del premier e del ministro per l’Economia verso l’opposizione: «Non appena dal nostro campo viene una proposta, per esempio orientata a sostenere i consumi in questa fase difficile per le imprese e le famiglie, Tremonti e soprattutto Berlusconi non perdono occasione per infilare le dita negli occhi al Pd. A me sembra un atteggiamento irrazionale. Non si vede quale sia la convenienza nell’assumere su di sé tutte le responsabilità. Io parlo con gli imprenditori, e so che gli ordini sono calati, la recessione si sente: per quale motivo il capo del governo rifiuta il confronto?». Già, chissà. La supermaggioranza in Parlamento consente al premier anche di fare a meno del consenso. Certo, è troppo presto per dare per concluso il legame affettuoso fra la società italiana e Berlusconi. Ma forse ci avviciniamo alla fase della sopportazione reciproca. Senza entusiasmi. Con gli uomini di An che mugugnano. Con Scajola che cerca di differenziarsi dai rigori di Tremonti. Insomma, come se ci trovassimo di fronte a una democristianizzazione del Pdl. Chissà se siamo condannati a morire berlusconiani. n

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